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PARTE SECONDA 5 страница

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«Non ricordo nessun'altra donna. Quale altra donna?» replicò con un sorriso. «Un'amica, Jane. Si chiama Claire.»

«Ed è un'amica

«Non quel genere d'amica... e neppure dell'altro genere.»

«E quel segno rosso sul collo? Un morso di vampiro?» chiesi. «È così?»

Non che fossi gelosa. Del mio amico immaginario dell'infanzia. Oddio, ero veramente fuori di testa. Be', me ne sarei fatta una ragione.

«Tiro un po' di boxe.»

«Ah», dissi, cercando di immaginarlo. «Be', anch'io mi alleno ogni giorno con mia madre, quindi abbiamo in comune anche questo.» Gettò indietro la testa e rise, e il piacere pungente che mi provocò quel gesto fu quasi doloroso.

Era proprio Michael, il Michael della mia infanzia, ma ora che ero cresciuta lo apprezzavo in un modo completamente nuovo. La sua intelligen-za, la sua arguzia e il suo aspetto... mio Dio! C'era qualcosa di sexy perfino nel fatto che tirasse di boxe, nel livido sul collo, nel suo essere così poco moderno e lontano dall'era del computer. Il suo sorriso era sempre stato contagioso, mi aveva sempre riempito di gioia, e lo era ancora, e ci riusciva ancora.

Ovviamente, anche se il mio cuore gioiva di averlo ritrovato, era ben consapevole che sarebbe potuto sparire in qualsiasi momento, che avrebbe potuto girarsi improvvisamente verso di me e dire: «Ti dimenticherai tutto di me, Jane. Funziona così».

Ma non era successo. Magari non sarebbe successo. Potevo ancora sperare.

«Ehi, c'è il Met», disse Michael. «Rimane aperto ancora un'ora.»

Era meno di ventiquattro ore fa che avevo trascorso in quel posto una delle peggiori serate della mia vita? Sembrava passato un anno. Ma ora ero ansiosa di tornarci. Perché con Michael tutto era possibile.

38

«Da dove cominciamo?» gli chiesi quando ci ritrovammo nell'imponente ingresso del Met.

«Vorrei mostrarti...» cominciò Michael, poi rise, prendendosi in giro.

«Voglio dire, l'avrai già vista un milione di volte, ma io ho sempre desiderato vederla con te. D'accordo?»

«Sì.» Francamente, in quel momento avrebbe potuto dire: «Vorrei mangiare una ciotola di cibo per gatti. Anche tu?» e avrei risposto sì. Michael mi prese il braccio. Sembrava un gesto naturale per lui, ma mi fece rabbrividire e mi sentii la testa leggera - in un modo piacevole. Certo che se fossi svenuta sul serio non sarebbe stato altrettanto piacevole.

A braccetto, salimmo l'imponente scalinata. Mi piaceva essere lì con lui, ma ero consapevole che aveva poca importanza dove fossimo perché tanto stavo sognando, vero?

Girammo a sinistra, passammo attraverso una grande porta di legno e ci ritrovammo in una delle più belle stanze al mondo. Enormi tele con le nin-fee di Monet tappezzavano le pareti, abbracciandoci, trasportandoci in un altro mondo.

«Perché le cose così belle mi fanno venir voglia di piangere?» chiesi a Michael avvicinandomi a lui. Era un pensiero spontaneo, una riflessione che non avrei mai comunicato a Hugh.

«Non so», mi rispose. «Forse la bellezza, la vera bellezza, ci domina a tal punto da raggiungere direttamente il cuore. Forse ci fa sentire emozioni che sono ben nascoste dentro di noi.» Batté le palpebre e fece un timido sorriso. «Mi spiace. Mi comporto come se partecipassi a una puntata di Oprah.»

Gli sorrisi anch'io, deliziata da quest'uomo capace di ridere di se stesso.

L'esatto opposto di Hugh: non Hugh Grant, non Hugh Jackman, in ogni modo non nella mia vita, mai più.

Ci muovemmo nella sala spettacolare e ci riempimmo gli occhi e i cuori, senza parlare. Poi, dopo qualche istante, entrambi percepimmo che era giunta l'ora di uscire.

«Ti accompagno a casa. Ti spiace?»

Mi spiaceva? Certo che no. «No, sarebbe bello», dissi. «Non è distante, sul Park. Sulla Settantesima Strada.»

«Lo so», disse.

«Come fai a saperlo?» chiesi, sorpresa.

Si fermò. «Lo so, Jane. Sai come sono. Certe cose le so.»

Mentre il pomeriggio si trasformava in sera, l'aria si fece più fresca e il cielo più scuro e noi ci dirigemmo verso Park Avenue, ma Michael non mi teneva più sottobraccio e io cominciai a paventare il momento in cui mi avrebbe salutato. Non ero sicura di poterlo sopportare. Sapevo di non avere alternative.

Sull'Ottantesima passammo davanti a un palazzo stupendo. Attraverso le porte a vetri, scorgemmo l'ingresso affollato di antichi mobili francesi, e le pareti coperte di foglie d'oro. Nel mezzo c'era un grande vaso smaltato con la più grande pianta di gardenie che avessi mai visto.

«Oh», dissi. «Adoro le gardenie. Il loro profumo. Sono così belle.»

«Continua a camminare», disse Michael. «Ti raggiungo.»

Pregando nervosamente che non sparisse, camminai piano, cercando di non guardarmi alle spalle. Alcuni istanti dopo Michael era di nuovo al mio fianco, con una gardenia bianca. L'orlo dei petali era spruzzato del più te-nue dei rosa e il suo profumo riempiva l'aria.

«Come fai?» chiesi.

«Cosa? A prendere un fiore per te?»

«No. A essere... perfetto.» Inalai il dolce profumo della gardenia e improvvisamente mi sentii prossima alle lacrime.

Senza rispondere, Michael mi prese di nuovo il braccio e ritornò intimo e affettuoso.

Proseguimmo per Park Avenue e io cercavo di prolungare ogni secondo, camminando sempre più lentamente. Ma non potevamo rinviare l'inevitabile e arrivammo davanti al mio palazzo. «Buona sera, signorina Margaux», disse Martin. «Oh, e buona sera, signore.» Martin guardò Michael, quasi come se l'avesse già visto, ma era impossibile.

Morivo dalla voglia di chiedere a Michael di salire, ma sembrava troppo sfacciato, troppo presuntuoso, troppo in stile Vivienne. Più imbarazzata dell'improvviso silenzio tra noi fu soltanto l'educata stretta di mano che ci scambiammo. Ma non potevo lasciarlo semplicemente svanire nella notte.

«Michael, devo chiedertelo», sbottai. «Mi spiace, ma devo. Te ne andrai ancora?»

Michael tacque e io sentii le orecchie che ronzavano e la testa che mi scoppiava. Poi Michael mi prese di nuovo la mano e sorrise dolcemente.

«Ci vediamo domani, Jane. Mi manchi... mi manchi già.»

39

Provavo l'incerta sensazione che fosse mattina e che mi stessi svegliando e che qualcosa nella mia vita fosse cambiato drasticamente. Poi ricordai Michael e spalancai gli occhi. Ti prego, Signore, fa' che non sia stato solo un sogno, invocai silenziosamente.

Mi sentivo fragile come un bicchiere di cristallo e girai lentamente la testa verso il comodino. C'era la mia gardenia bianca, quella che Michael mi aveva dato la sera prima.

Toccai il fiore per essere certa che fosse vero - lo era - e poi mi sedetti, dondolando le gambe. Non era stato un sogno.

È così dunque che ci si sente quando si è «felici», pensai. L'energia, il sorriso spontaneo. È così quando si guarda con fiducia a un nuovo giorno, quando ci si aspetta che capitino cose belle. Era una sensazione nuova e insolita.

In cucina, mi versai un bicchierone di succo d'arancia. La segreteria lampeggiava insistentemente, bevvi il succo e premetti il pulsante di ascolto prima che collassasse.

«Jane, sono io. Cosa posso dire? Mi spiace così tanto. Non so cosa mi sia successo. Mi sento malissimo a proposito della faccenda dell'auto a Brooklyn. Chiamami e...»

CANCELLA.

«Jane-cara, penso che sia stato un po' arrogante da parte tua saltare il pranzo. Non sono riuscita a darti il bacio. E, sai, Karl Friedkin è d'importanza vitale per...»

CANCELLA.

«Jane-cara, stavo giusto pensando all'ingresso nella quarta scena di Thank Heaven. Non so quale scribacchino di Hollywood tu abbia scelto per la sceneggiatura...»

CANCELLA.

Non mi presi la briga di ascoltare gli altri nove messaggi e pigiai il tasto CANCELLA.

Feci una doccia, lasciando scorrere l'acqua più fredda del solito. Il freddo mi rinvigoriva e mi sentii così viva, con la pelle che pizzicava e il sangue che entrava in circolo. Mentre mi asciugavo, per una volta, i miei occhi non evitarono lo specchio grande. Sapete, non ero affatto male. La pelle era fresca e rosea, i capelli bagnati erano voluminosi e sani. Sovrappe-so? Diavolo, no. Ero voluttuosa, con tutte le curve al posto giusto. Ecco com'è una donna, mi dissi.

Mi infilai degli slip color glicine e andai all'armadio già sapendo che og-gi non avrei indossato le mie solite gonne e camicie nere.

Mi infilai i miei jeans preferiti, morbidi, comodi, stinti. Misi una camicia bianca che mi era sempre piaciuta. Intorno alla vita mi strinsi una vecchia cintura da cowboy.

Ero sicura e felice, comoda nella mia pelle, forse per la prima volta da quando avevo otto anni.

Appena prima di lasciare l'appartamento mi portai la gardenia al viso e l'annusai.

Poi mi infilai l'anello di diamanti e andai in ufficio.

40

«Ecco i tuoi messaggi. Ecco il tuo caffè. E il rumore di martello pneu-matico sono i tacchi di tua madre in corridoio.»

La mia segretaria, MaryLouise, mi diede una tazza con il logo del film The History Boys. Mi erano piaciuti sia lo spettacolo teatrale sia il film, quindi c'era speranza per Thank Heaven, giusto?

«Mmm. Grazie. Delizioso», dissi, bevendo una sorsata di caffè.

«Bene. Così quando mi cacceranno da qui a pedate potrò andare a lavorare in uno Starbucks.»

«Magari ci andiamo insieme», mormorai. «Bariste per sempre.»

Cominciai a scorrere la pila di messaggi. Non mi sorprese che la grande maggioranza fosse di Hugh, della sua viscida agente e del suo equivoco manager. Quei tre erano riusciti a fare undici chiamate. Potevano baciarmi il fondoschiena fasciato dai jeans.

«Non mi sono neppure presa la briga di passarti i messaggi di...» La porta si spalancò nel mezzo della frase di MaryLouise e apparve Vivienne, infuriata.

«Tua madre. Ma eccola qui.»

Vivienne aveva le mani sul suo vitino taglia trentotto.

Ci volle tutto il mio autocontrollo per non dire: «È pronta per il primo piano, Miss Desmond?»

Prima di tutto mi diede il bacio del mattino.

Poi cominciò.

«È quasi mezzogiorno, Jane. Dove diavolo sei stata? E, Dio santo, come ti sei vestita? Stai andando a un rodeo

Continuai a sfogliare i messaggi. Niente da Michael.

«Ti ho fatto una domanda», insistette Vivienne ad alta voce, chinandosi sulla mia scrivania, per guardarmi meglio in faccia. «In modo molto civile, aggiungerei.»

«Hai un altro dolcificante?» chiesi a MaryLouise.

La mia segretaria annuì e aprì un cassetto della scrivania.

Per un istante mia madre parve ammutolita, ma ovviamente sarebbe stato troppo bello se fosse durato. Mentre mescolavo il dolcificante nel caffè, ci riprovò. «Bene, voglio sapere dove sei stata ieri e ieri sera», disse con durezza. «Ti ho chiamato talmente tante volte che penso di avere rotto il tasto di richiamata. Non hai la banale cortesia di richiamare tua madre?

Hai la segreteria rotta? O hai maturato una sorta di ribellione adolescenziale con vent'anni di ritardo?»

Il mio silenzio si protraeva e Vivienne cambiò tattica. «Ho saputo cosa è successo con il povero Hugh e Felicia e Ronnie», disse, facendo sembrare la frase come «Hiroshima ha chiamato, dicono che li avete bombardati».

«Non so cosa diavolo non ti vada bene. Ti rendi conto di come sono tutti arrabbiati? A ragione. Perché tu sei ostinata e hai torto. Conosco il mondo dello spettacolo come tu non lo conoscerai mai e Hugh McGrath è perfetto per quel ruolo. Senza Hugh non c'è il film.»

Bevvi un altro sorso di caffè e feci cadere come coriandoli i messaggi nel cestino della carta straccia.

«Sei fortunata che ci sia io ad arginare i danni», continuò mia madre.

«Dobbiamo incontrare il povero Hugh e i suoi agenti a colazione. Telefona al Gotham Bar e Grill. Ci troveremo all'una. Se ti faranno entrare vestita come una mandriana.»

Terminai il caffè.

«Hai finito?»

I suoi occhi fiammeggiavano.

«Prima di tutto, sono un'adulta. Ieri ero fuori. Con un amico. Dove fossimo non è assolutamente affar tuo. La mia segreteria non è rotta, ma io avevo da fare. Non si tratta di una ribellione adolescenziale poiché, come ho già accennato, sono adulta. Questa sono io, che agisco da adulta. Ti suggerisco di comportarti come me. Ora: a proposito di Hugh, e non parlo di Hugh Grant né di Hugh Jackman, e il suo ruolo nel film. La discussione è chiusa. Non ne parleremo mai più. Thank Heaven è mia proprietà. Ho il finanziamento. Ho il coinvolgimento della casa di produzione. E voglio qualcuno migliore di Hugh McGrath. Mi hai sentito, mamma? Argomento chiuso. Quindi, temo che la colazione con Hugh e i suoi tirapiedi sia fuori discussione. Non rispondo alle tue critiche sul mio abbigliamento perché decido io cosa mettere e non sono molto interessata alle opinioni altrui.»

Tranne quella di Michael. «E sai una cosa, mamma? Penso di star bene.»

Vivienne spalancò la bocca come se mi fossero spuntate le antenne. Per qualche secondo borbottò e balbettò, poi si girò e se ne andò come una furia, sbattendo prima la mia porta, poi quella del suo ufficio in fondo al corridoio.

«È tutto?» chiese MaryLouise.

«Più o meno, direi.»

41

Cosa gli stava succedendo? O, meglio, cosa stava succedendo tra lui e Jane?

Diavolo se lo sapeva.

Michael entrò nella doccia e aprì l'acqua calda. Oggi avrebbe rivisto Ja-ne. Si sentiva nervoso, eccitato, felice e intimorito al tempo stesso. Era l'emozione più grande che avesse mai provato e avvertiva quasi un senso di nausea. Rimase a lungo sotto la doccia, poi si avvolse in un telo, pulì dal vapore lo specchio sopra il lavabo e cominciò a radersi.

Aveva la sensazione di non riconoscere il viso riflesso nello specchio, lo ricoprì di schiuma da barba e cominciò a tracciare dei morbidi solchi con uno di quei superefficienti rasoi a cinque lame.

E fu allora che successe.

Una cosa che non gli era mai capitata prima. L'impensabile.

Si tagliò.

Per la prima volta.

Una goccia rossa affiorò vicino al mento, si mescolò alla schiuma da barba e formò una macchia rosacea.

Assistette a questo fenomeno come a un miracolo, come se l'acqua sgor-gasse improvvisamente da una roccia o come se fosse la moltiplicazione dei pani e dei pesci. Finì di radersi, si asciugò la faccia e mise un pezzetto di carta igienica sul taglietto.

Incredibile. Una medicazione con la carta igienica! Un'altra novità.

Infilò in fretta qualcosa di pulito e uscì sul pianerottolo. Si girò per chiu-dersi la porta alle spalle giusto in tempo per vedere Patty dell'Olympia sgusciare dalla casa di Owen.

«Ehi, Michael», disse, arrossendo lievemente alla vecchia maniera. «Ti sei tagliato facendoti la barba?»

«Sì, Patty. Sì, mi sono tagliato. Grande, vero?»

«Sì, certo. Be', devo andare. Mia mamma mi sta tenendo Holly. La mia bambina. Devo accompagnarla a scuola. Poi vado al lavoro...»

«Stai attenta lì fuori», disse Michael e avrebbe voluto indicare l'appartamento di Owen e aggiungere «Stai attenta lì dentro», ma non lo fece.

Patty ridacchiò. «Hill Street Blues. Mi è piaciuto quello spettacolo. È la frase che ripete sempre il sergente, vero? A dopo, Michael.»

Seguì Patty giù per le scale, ma quando raggiunse la strada lei era già sparita. Sperava che stesse bene. Comunque si sentiva un poco responsabile, ma non avrebbe dovuto.

Alla fine cominciò a concentrarsi sulla sua giornata. Non aveva idea di dove andare quella mattina, ma sapeva che aveva qualcosa a che fare con Jane.

«Mi sono tagliato radendomi!» si meravigliò ad alta voce e ottenne qualche occhiata divertita dai passanti. «Avreste dovuto esserci.»

42

Normalmente (se così si può dire) al mattino si trovava con gli «amici»

per un caffè e un dolce. Ma oggi aveva bisogno di rivedere Jane, di parlarle. Almeno una volta ancora. Così fece una lunga passeggiata e si avventu-rò nell'edificio dove lei lavorava. All'inizio gli era sembrata una buona idea, ma ora cominciava a dubitare che non fosse un grosso errore, il primo di una serie. Cosa ci faceva lì? Cosa sperava di ottenere?

«Salve», disse la donna alla reception della ViMar Productions, disto-gliendolo bruscamente dai suoi pensieri. «È un attore, vero? Vuole lasciare il suo curriculum?»

Michael scosse la testa. «Perché dice una cosa del genere?»

«Be', si è mai visto allo specchio?»

Michael stava decidendo come rispondere, quando una terribile immagine dal passato si materializzò sulla porta rossa a battente dietro la reception. Era Vivienne e, Dio, quella donna era la prova vivente dell'arte della chirurgia plastica. Quante decine di migliaia di dollari erano stati spesi per restituire alla pelle quella tesa levigatezza? A proposito di miracoli: non era invecchiata di un giorno.

Forse c'era un tocco di lucentezza chirurgo-plastica sulla fronte, gli zigomi erano lievemente troppo prominenti. Ma l'insieme era gradevole. Un poco più fragile, ma ancora d'effetto. E, ovviamente, carico di energia.

Vivienne si concentrò su di lui. Michael sapeva che, anche se lui l'aveva vista migliaia di volte, lei lo vedeva per la prima volta.

«Salve», disse Vivienne, calandosi completamente nel ruolo della donna affascinante. «Sono Vivienne Margaux. Conosco tutti quelli che contano a New York. Quindi perché non la conosco? Non mi dica che non parla inglese.»

«D'accordo, non glielo dirò», rispose Michael e sorrise gentilmente.

«Ha anche un sorriso da un milione di dollari», aggiunse Vivienne, por-gendogli la mano. Michael la strinse. Era morbida e liscia. Buon Dio, ha fatto la chirurgia plastica persino alle mani.

«Ignoro perché le nostre strade non si siano incrociate prima d'ora, ma è un piacere incontrarla. È qui per vedere chi?» chiese senza che il sorriso le abbandonasse mai la faccia, la testa leggermente inclinata di lato, con un modo di fare schivo, da scolaretta.

«Una mia amica lavora qui.»

«Oh. Davvero? Chi è la sua amica? Se non sono sfacciata.»

«Sono qui per vedere Jane», rispose Michael.

Il sorriso scomparve. «Capisco», disse Vivienne. E proprio in quel momento, con un perfetto tempismo teatrale, Jane comparve all'ingresso.

Per un istante rimase raggelata, sorpresa di vedere Michael nel suo ufficio, poi un sorriso dolce le illuminò il volto e Michael non riuscì a disto-gliere lo sguardo da lei. Jane lo raggiunse e con dolcezza gli levò dal mento il pezzetto di carta igienica come se fosse il gesto più naturale al mondo.

«Fa male», fu tutto quello che gli disse.

«Sì, e sanguina.»

Vivienne intervenne. «Ho appena incontrato il tuo amico, Jane-cara.»

«Bene», disse Jane.

«Come si chiama? A me non lo dice.»

«Michael», rispose lui.

«Michael cosa?» chiese Vivienne.

«Solo Michael», precisò Jane e poi chiamò l'ascensore.

«Oh, come Sting e Madonna.»

«Esatto», disse Jane tranquillamente. Michael intuiva che Vivienne frig-geva per avere più informazioni, ma, se Jane non la voleva assecondare, non lo avrebbe fatto lui.

«Pronta per il pranzo?» le chiese Michael.

«Sono affamata.»

«Jane, vieni qui immediatamente», disse Vivienne. «Abbiamo delle riunioni e delle telefonate, e la faccenda con Hugh non è sistemata.»

«D'accordo, arrivederci», concluse gentilmente Jane, come se non l'avesse sentita.

Le porte dell'ascensore si spalancarono con un sibilo e lei e Michael en-trarono.

Quando si richiusero, Michael disse: «Stavamo quasi per rimetterci la pelle, Bonnie».

«Quasi, Clyde. Ma ce l'abbiamo fatta. Non girarti o ci trasformerà in colonne di cipria.»

«Ci provo.»

43

Se potessi scegliere un'esperienza nella vita e farla durare per sempre, sceglierei il momento in cui avevo visto Michael che mi aspettava davanti all'ufficio di mia madre.

Non quando lo avevo incontrato al St. Regis.

Non la passeggiata con lui sulla Quinta Avenue.

No. Il momento in ufficio. Perché significava che era reale. E rendeva vero anche il resto. Il pomeriggio precedente al St. Regis. La nostra visita al museo. La gardenia che mi aveva regalato. Era successo davvero. Il che probabilmente significava che esistevano Babbo Natale, il coniglietto di Pasqua e George Clooney.

«Allontaniamoci da qui», dissi a Michael.

«D'accordo. Dove ti piacerebbe andare?»

«A Parigi. Ma devo rientrare per una riunione alle due.»

«Allora forse Parigi è da escludere. Prendiamo un taxi e vediamo dove ci porta.»

Michael schioccò le dita... e un taxi si fermò. Interessante.

«Come... come hai fatto?» chiesi con gli occhi sbarrati.

«Onestamente, Jane, non lo so. L'ho sempre fatto.»

Dieci minuti dopo stavamo passeggiando nel West Village. Per prima cosa ci fermammo in uno dei nostri posti preferiti di un tempo, il Li-Lac Chocolates, sulla Christopher Street. Ero così felice che ci fosse ancora.

Comperammo i tartufi di cioccolato e Michael disse che erano per il «dopo pranzo». Gli risposi che non poteva più dirmi come dovessi comportarmi e ne mangiai uno prima ancora di uscire dal negozio. E lo stesso fece lui.

«Copione.»

«La forma più sincera di adulazione.»

Camminammo fino a Hudson Street ed entrammo in un negozio che vendeva soltanto antichi salvadanai di ghisa, del tipo che metti una moneta in bocca al cane, poi schiacci un bottone e la lingua del cane la lancia nella mano di un giocoliere.

«Accidenti», disse Michael. «Questo salvadanaio costa novecentonovan-tacinque dollari.»

«Il denaro non è un problema», precisai con generosità. «Ti piace?»

«Non fare la sbruffona, riccastra.» Ma sembrava contento e proprio lì, nel mezzo del negozio, mi prese tra le braccia e mi strinse, senza parlare.

In quell'istante capii esattamente cosa volevo dalla vita: quello. Quella sensazione, quella felicità, quell' abbraccio.

Pranzammo in un delizioso ristorante francese che si chiamava semplicemente «Ristorante Francese». Seduti a mangiare pollo e patatine fritte e a bere vino, parlammo e parlammo liberamente, con facilità, come se fosse la cosa più naturale al mondo. Noi. Essere lì insieme, un uomo e una donna. Oppure una donna e quello che era Michael. Un angelo?

Dovevamo riprendere il filo delle nostre vite. Raccontai a Michael dei miei quattro anni a Dartmouth, dove ero stata l'unica allieva della scuola a rifiutarsi di sciare. Lui rise quando confessai che la settimana della laurea ero diventata un'adepta di una setta religiosa: la Weight Watchers.

Michael mi disse: «Non hai bisogno di Weight Watchers, Jane. Sei splendida. Lo sei sempre stata. Lo sai?»

«Sinceramente, no. Non l'ho mai saputo.»

In realtà non dissi tutto a Michael. Anche se gli raccontai gli aneddoti più gustosi del mio lavoro con Vivienne, non feci cenno al successo della commedia Thank Heaven. E neppure gli dissi che avremmo cominciato le riprese di un film su una bambina e il suo amico immaginario. Che si ispi-rava a Michael e a me.

Quando finalmente riuscii a farlo parlare di sé, fu modesto e discreto, cosa che mi colpì molto. Mi parlò di alcuni incarichi passati. I gemelli del North Carolina, la figlia di una senatrice dell'Oregon, alcune storie terribili su un bambino attore prodigio a Los Angeles, di cui avevo già sentito parlare.

«Ho molte domande da farti su questa faccenda dell' amico», gli confidai.

«Purtroppo io non ho molte risposte. Vorrei averle, Jane. Non immagini quanto.»

Non era una risposta soddisfacente, ma probabilmente era la sola che avrei ottenuto. Poi gli chiesi qualcosa di ancor più personale che morivo dalla voglia di sapere. «Sei stato legato a qualcuno? Sentimentalmente?»

Si mosse a disagio sulla sedia e alzò le spalle. «Incontro persone», rispose evasivo. «Mi piacciono le persone, Jane. Di tutti i tipi.»

«E scommetto che tu piaci a loro.»

Michael non sembrava a disagio, ma soltanto, be'... riservato. E certamente misterioso.

«Facciamo qualcosa», suggerì Michael prendendomi la mano. «Non importa cosa.» E schioccò le dita per chiamare un taxi.

44

Non importa cosa facemmo quel giorno. Avremmo potuto scavare fossa-ti e l'avrei trovato ugualmente eccitante.

Ma ci dedicammo a qualcosa di meglio che scavare: andammo con i rollerblade sulle colline della parte settentrionale di Central Park, dove l'asfal-to era levigato e il traffico scarso. Volammo come angeli sul cemento, evitando a malapena persone che facevano jogging, ciclisti, accompagnatori di cani con le loro assordanti mute latranti. Cosa sta succedendo? Certamente non è mai successo a nessuno prima. Deve esserci una spiegazione logica. Ma forse devo accettare che non ce ne siano.

Non salivo sui rollerblade da quando avevo dieci anni. Ricordo che mia madre mi chiamava «gatta di marmo», vale a dire una persona priva di grazia naturale. Non sembravo essere migliorata molto con l'età. Sulla No-vantaseiesima Strada ero disposta a darmi per vinta mentre cercavo di raggiungere la cima di una delle collinette più alte del parco. Le caviglie e le cosce mi dolevano. E poi improvvisamente ci ritrovammo in cima e vo-lammo giù velocemente, sempre più velocemente, completamente senza controllo. «Michael!» gridai.

Mi afferrò la mano. «Fidati di me!» mi urlò di rimando.

E io lo feci. Fortunatamente non ci furono né incidenti né cadute. Michael si stava prendendo nuovamente cura di me, come aveva sempre fatto.

Sani e salvi ai piedi della collina, ci buttammo nell'erba folta, ansimanti, a pochi passi da un'anziana signora su una sedia a rotelle, in compagnia di un'infermiera in uniforme bianca inamidata.

«Pensavo avessi una riunione alle due», disse improvvisamente Michael, guardando l'orologio.

«L'avevo. L'ho persa.» Stranamente non ero affatto preoccupata. Interessante.

L'anziana signora ci guardava e ora sorrideva. La sua accompagnatrice le sistemò uno scialle intorno alle spalle e cominciò a spingere la sedia a rotelle.

La donna si girò e gridò: «Buona fortuna! Siete davvero una bella coppia».

Ero d'accordo. Guardai Michael, ma il suo viso non lasciava trapelare nulla. «Siamo una coppia?» gli chiesi, trattenendo il respiro.

Rise piano. «Forse una coppia di svitati.»

Non era proprio quello che avrei voluto sentire, ma lasciai perdere.

Per cena mangiammo degli hot dog nel parco, caldi, speziati, pieni di senape e salsa piccante. Camminammo e parlammo e alla fine arrivammo di nuovo a casa mia.

«Bene, eccoci», dissi con scoppiettante arguzia.

Ci fermammo all'entrata dell'edificio e Martin il portiere si allontanò con discrezione. Sì, adesso dovrei chiedergli di salire nel mio appartamento.

Certo che dovrei. E Martin approverebbe.

Ma mentre le fatali parole stavano per uscirmi dalla bocca Michael si avvicinò. Sì, pensai. Oh, sì, ti prego. La sua faccia era a pochi centimetri dalla mia e mi mancò il fiato. Non lo avevo mai visto così da vicino, la pelle liscia, gli occhi azzurri.

Poi improvvisamente si ritrasse, quasi avesse avuto paura di qualcosa.

«Buona notte, Jane. È stata una giornata perfetta, ma ora è meglio che io vada.»

Si girò, si allontanò in fretta e non si voltò a guardarmi.

«Mi manchi già», sussurrai.

A nessuno.

45

 

Buona notte, Jane... ora è meglio che io vada. Come aveva potuto dirlo?

Come avrebbe potuto non essere una notte agitata e insonne dopo un giorno intero passato a perdermi negli occhi di Michael? Non volevo assolutamente stare sola a casa, ma eccomi qua.




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