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PARTE SECONDA 6 страница

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Andai in soggiorno e guardai la città mentre sgranocchiavo un paio di biscottini Oreo. D'accordo, quattro Oreo. Vivevo a un piano sufficiente-mente alto che mi permetteva di sovrastare gli edifici vicini e avevo una vista spettacolare su Central Park. New York era sempre stato il posto giusto per me, ma quella notte lo era ancora di più, forse perché Michael era là fuori, da qualche parte. Ma chi era? Un «amico immaginario»? Un angelo? Un'allucinazione? Nessuna risposta aveva senso. Ma non ne avevo altre.

Proprio allora il telefono suonò. Per nessuna ragione volevo essere scoc-ciata da mia madre o da Hugh. Lasciamo che la segreteria faccia il suo lavoro.

Dapprima sentii la mia voce chiedere di lasciare un messaggio, poi quella della mia amica Colleen, quella che si stava per sposare. Un tempo eravamo state insieme nel club dei libri, in quello dei film, in quello della musica rock e degli animali da compagnia. Ormai non avevamo più così tante cose in comune.

«Oh, Janey, sono Colleen, speravo di trovarti. Non abbiamo ancora parlato da quando ti ho detto di Ben.»

Corsi al telefono e alzai il ricevitore. «Colleen! Ci sono. Stavo giusto entrando. Come stai? Ti ho lasciato un messaggio. Ti ho detto che morivo dalla voglia di conoscere questo pezzo grosso del tuo avvocato di Chicago.»

«Lo so, ma volevo sentire la tua voce in tempo reale. Volevo sentire la vera Jane.»

«Eccola, bimba.»

Così parlammo. Quando Colleen tacque dopo circa un'ora, avrei potuto scrivere la love story della coppia per il Chicago Tribune, il New York Times e il Boston Globe. Ben, il figlio del dottor e della signora Steven Collins aveva frequentato la British Columbia, poi la scuola di legge Michigan Law. Mi chiesi se Colleen avrebbe cambiato il suo nome diventando Colleen Collins. A ogni modo, Ben aveva poi lavorato per due anni nell'ufficio del procuratore distrettuale di Chicago. Era stato presentato a Colleen da sua cognata durante una festa a Martha's Vineyard. Aveva un appartamento affacciato sul lago Michigan dove Colleen col suo gatto Sparkle si sarebbero trasferiti. Quando cominciò a raccontarmi della farcitura della torta nuziale, intervenni.

«Wow, sembra proprio che tu abbia programmato tutto», dissi cercando di mostrare un entusiasmo convincente. Volevo bene a Colleen, ma se mi avesse detto che avrebbe messo due topolini di zucchero in abito da sera sulla torta probabilmente avrei buttato il telefono dal balcone.

«Oh, Jane, non ho fatto altro che parlare di me, me, me. Sei così brava ad ascoltare.»

«Nessun problema. Sono qui per questo. Adoro sentirti così felice.» E, se anche ero un po' gelosa, quello era un mio problema.

«La prossima volta sarai tu a chiamarmi con la stessa notizia. Ma, ascolta, novità per te?»

«Non molte. Sai, il lavoro e i tentativi per ridurre mia madre alla sotto-missione con la forza.»

Colleen ridacchiò. «Come sempre.»

Oh, quasi dimenticavo, mi sto innamorando di un uomo perfetto, dolce, divertente e incredibilmente bello, che però potrebbe essere soltanto un parto della mia fantasia. Per il resto, tutto come al solito.

46

Il mattino dopo Michael era lì.

In paziente attesa fuori dall'edificio, proprio come faceva tanti anni fa. In carne e ossa, per così dire. Non un'allucinazione. Almeno, così mi pareva.

In mano aveva un'altra splendida gardenia bianca.

«Ciao, Jane.» Aveva un aspetto scarmigliato e adorabile. «Dormito be-ne?»

«Oh, sì, mi sono addormentata subito», mentii. «E tu?»

Ci incamminammo affiancati, con un ritmo perfetto, come eravamo soli-ti andare a scuola ogni giorno. Quindi mi stava custodendo di nuovo? Mi proteggeva? Perché? Almeno lui conosceva il motivo? Perché non aveva risposte? Quando ero piccola sapeva sempre tutto. Mai un'incertezza, mai un'esitazione. Il fatto che su quella situazione fosse confuso quanto me, in qualche modo lo rendeva infinitamente più umano.

Sebbene fosse primavera l'aria era fredda e il cielo minacciava pioggia, ma oggi niente avrebbe potuto deprimermi. Ero ottimista. Per la prima volta da molto, molto tempo.

Mentre camminavamo, parlavamo incessantemente di tutto e di niente, del passato e del presente, ma non del futuro. Forse le chiacchiere con Michael erano la parte migliore di quella amicizia o storia d'amore. O forse lo sono di tutte le storie. Anche se, Dio solo lo sa, avrei voluto stringerlo e baciarlo e, in verità, anche molto di più. Aveva un fisico fantastico, ma una bambina di otto anni non era certo in grado di apprezzarlo.

«Jane! Vuoi andarci, in ricordo dei tempi passati?» Michael indicava sull'altro lato di Madison Avenue una familiare piccola «bottega degli or-rori» chiamata Muffin Man. C'eravamo andati durante molte mattinate colpevoli una ventina di anni fa e, per essere onesti, io avevo mantenuto la tradizione.

«Quando si cominciano ad amare i muffin, non si smette più», esclamai.

«Forza, fai strada!»

Mentre aspettavamo in coda, Michael disse: «Ricordo che la tua scelta cadeva sempre su mela, cannella e noce».

«Ancora.» Tra gli altri. Non sono molto esigente in fatto di muffin.

Ne prendemmo uno a testa, anche se mi resi conto di non essere particolarmente affamata, il che era davvero strano per me, ma meglio così.

Michael prese un frappé al caffè e io un decaffeinato. Ciò che mi stupiva di più dello stare con Michael era come, al confronto, Hugh e io avessimo parlato poco, e pochissimo avessimo in comune.

Di nuovo in strada e a circa un isolato dall'ufficio, si aprirono le cateratte e incominciò a scendere una pioggia gelida.

«Possiamo aspettare sotto quella pensilina o fare una corsa», disse Michael.

«La corsa, ovvio.» Ed era quello che mi sentivo di fare: correre e gridare forte.

Così corremmo sotto la pioggia, tra le pozzanghere fino alle caviglie, evitando le persone abbastanza furbe che avevano portato gli ombrelli. Decisi saggiamente di tenere per me le grida sfrenate.

Praticamente ci catapultammo attraverso le porte del mio palazzo, fradici fino al midollo, ma ridendo come due bambini, o due adulti un po' pazzi.

Sorridendo goffamente, ci avvicinammo sempre più, sempre più... Oddio, volevo... così tanto... che succedesse.

Ma.

«Ci vediamo dopo», disse Michael tirandosi indietro e perdendo il sorriso. Si accigliò. «Tutto bene? Ti sto... importunando?»

Oh, sì, mi stai proprio importunando, pensai rabbiosamente. Ma questa volta non gli avrei permesso di svignarsela.

Così lo afferrai per un braccio, non gli permisi di muoversi, poi lo baciai... sulla guancia. Un bacio bagnato di pioggia, ma caldo d'amore.

«A dopo. Ho sempre voglia di vederti», dissi e poi aggiunsi soltanto:

«Mi manchi già».

Ecco com'ero: rischiavo, vivevo alla grande. Born to Be Wild...

Michael mi lanciò un'ultima occhiata affettuosa. Poi entrai nell'ascensore affollato e pigiai il bottone del mio piano.

Continuai a cantare Born to Be Wild. Nessun problema a lasciarmi andare.

Dio, ero felice.

47

In realtà Michael era veramente felice, ma era anche molto tormentato.

Così si ritrovò con alcuni dei suoi migliori amici e raccontò di Jane, di come si erano ritrovati e della stranezza che ricordasse tutto di lui. «I gelati al caramello, la strada per la scuola, il terribile, terribile giorno in cui l'ho lasciata, tutto!» Il gruppo lo sostenne, ma con stupore. Nessuno aveva mai provato una cosa simile. «Stai attento, Michael», disse Blythe, probabilmente l'amica che gli era più vicina. «Per il tuo bene e per quello di Jane.

Dovrebbero dimenticarci. Funziona così. Ha sempre funzionato così. Ora sta succedendo qualcosa di strano.»

«Pensi?» chiese Michael.

Alle cinque e quarantacinque arrivò all'ufficio di Jane, come aveva pro-messo, e salutò la sua nuova amica, Elsie, la receptionist.

«Non credo che Jane mi stia aspettando», disse Michael.

«Sbagliato! La sta aspettando. L'ha aspettata per quasi tutta la giornata.»

Elsie citofonò a Jane e un momento dopo lei apparve, fresca e con le guance rosee. Stava arrossendo?

«Te l'ho detto che ti stavo importunando», disse Michael.

«È veramente noioso», confidò Jane a Elsie.

«La prego, importuni me», intervenne Elsie, che aveva superato da un pezzo la sessantina.

Aveva ricominciato a piovere, ma Michael aveva portato l'ombrello.

Camminarono spediti fino al ristorante Primavera, sull'Upper East Side, parlando come se non si vedessero da mesi.

«Quindi guardi la tv?» chiese Jane, evitando una pozzanghera e avvicinandosi ancora di più a lui.

«Soprattutto via cavo. Telefilm, come Deadwood e Big Love.»

«Anch'io!» esclamò Jane. «E poi? Quali altri interessi hai?»

Michael rifletté. Di solito le persone non gli facevano quelle domande.

Come aveva detto Claire de Lune, era un magnifico ascoltatore. «Mmm, mi piacciono le partite di football in diretta, mi piace Corinne Bailey Rae.

Le corse Nascar, Cézanne. Gli White Stripes.»

Jane rise. «Praticamente... tutto.»

Lui ridacchiò. «Abbastanza.»

«Cos'hai fatto oggi?» chiese Jane, infilando il suo braccio sotto quello di Michael.

«Ho incontrato degli amici», ammise lui. «Amici che... fanno il mio stesso lavoro. Ho fatto una lunga corsa e ho sonnecchiato.»

«Niente di speciale», lo punzecchiò Jane.

«Ehi, sono in vacanza, ricordi?» Erano arrivati al ristorante e improvvisamente Michael pensò: è un appuntamento? Sembrava proprio.

48

«E la tua giornata?» domandò Michael appena ci fummo seduti e dopo aver chiesto al cameriere una bottiglia di Frascati.

Feci una smorfia. «Non male, se consideri che ho avuto sei riunioni con Vivienne.»

«L'età non l'ha certamente fatta rallentare.»

«Non molto. Forse un pochino. In ogni caso, solo ultimamente. Sai, sto producendo questo film, una cosa piccola, niente di importante. Si potrebbe definire una commedia leggera.»

«Come Chocolat», commentò Michael e sorrise. «Mi è piaciuto da matti.»

Ci fu una pausa. Stavo cercando di pensare a come dirlo senza rivelare troppo.

«Continua», la sollecitò Michael. «Parlamene. Mi piace sentirti parlare del tuo lavoro.»

«Probabilmente sei il solo», dissi, cercando di non ridere troppo amara-mente. «In ogni caso, per il film c'è un coinvestitore che si chiama Karl Friedkin. Mentre passavo davanti all'ufficio di Vivienne questa mattina, dopo esserci infradiciati sotto la pioggia, chi ci ho visto seduto se non proprio Karl Friedkin? Allora ho chiesto a MaryLouise, la mia segretaria. Sai cosa mi ha detto?»

«Che Vivienne è a caccia di un nuovo marito. Il quarto, giusto?»

Lasciai cadere il pezzo di pane che avevo in mano e fissai Michael.

«Sorprendente. Anche MaryLouise lo sapeva. Solo io non ne sapevo niente. Devo essere veramente ottusa.»

«No. Sei soltanto un amabile essere umano. E la tua mente non va in quella direzione se non è provocata.»

«E la tua sì?» chiesi.

«Diciamo soltanto che ho visto tua madre in azione. Ma lo sai che ti a-ma, vero?»

Aggrottai le sopracciglia. «Chi non lo farebbe? Sono così amabile.»

Il cameriere passò a prendere le ordinazioni e dividemmo una portata.

Continuavo a non avere molto appetito, il che era strano, ma positivo. Non stavo male, soltanto non avevo voglia di mangiare.

Dopo due espressi e due sambuche, ci dirigemmo verso la parte meri-dionale del parco. La pioggia era cessata e io usavo l'ombrello di Michael come un bastone da passeggio. Cominciai a batterlo seguendo un ritmo, poi improvvisamente mi lanciai in una demenziale versione di «Singin' in the Rain». Era come vedere me stessa saltare da una scogliera senza riu-scirmi a fermare. «Nel mio cuooore c'è il sooole e sono pronta per l'amoo-ore...» Alla fine mi fermai.

«Mi spiace. Non so cosa mi abbia preso. Solo... la solita goffa Jane», dissi con le guance paonazze per l'imbarazzo.

«Mi piacciono gli imbranati. E poi tu sei intelligente, non maldestra.»

Visto? Una cosa del genere me lo faceva amare ancora di più. Alzando gli occhi, vidi che eravamo già a pochi isolati dal mio palazzo. Continuammo a camminare, una volta tanto in silenzio. Dovevo invitarlo a salire? Lo volevo. Lo desideravo veramente. Veramente.

Cercando di trovare il coraggio, lo guardai, ma ci eravamo fermati e mi stava di nuovo prendendo tra le braccia.

I miei occhi si spalancarono, poi si richiusero mentre Michael lentamente, lentamente, si chinava. Quasi sussultai quando sentii le sue labbra contro le mie e il mio cuore fece un balzo gigantesco che sono certa avrebbe potuto sentire anche lui. La mia testa, che già pensavo fosse a brandelli, ormai era completamente esplosa. Oh, Michael...

In tutta la mia vita non avevo mai provato niente di simile, neppure lontanamente. Infine ci separammo. Alzai gli occhi verso di lui, inspirando, e cominciai a dire...

Ma ci stavamo baciando di nuovo e non ero neppure certa di chi avesse cominciato, ma sapevo solo che Michael stringeva il mio viso tra le mani.

Poi mi tenne stretta, stretta, in un abbraccio affettuoso che mi piacque moltissimo. Ci allontanammo, e poi ci baciammo di nuovo. Infine, ci abbracciammo senza parlare e mi resi conto che mi sarebbe piaciuto farlo a lungo, forse per il resto della vita. E anche che mi girava la testa. Non volevo smettere. Mai.

49

Quando tornai dal mio «appuntamento» con Michael, e adesso ero certa che si potesse definire tale, non ebbi neppure il tempo di ripensare a ciò che era successo. Perché nel mio appartamento c'era qualcuno.

La luce all'ingresso era accesa e anche quelle dei pensili in cucina e c'era almeno una lampada accesa in soggiorno.

Ebbi un pensiero folle: che potesse essere Michael. Chi lo sa, forse poteva anche comparire dal niente.

Oppure poteva essere Hugh, perché sospettavo che avesse ancora una chiave.

Ma, se era Michael, non volevo chiamare «Hugh?» o viceversa. Che di-lemma assurdo per una che era sempre stata tragicamente a corto di relazioni!

Feci un respiro profondo e dissi: «Salve?»

«Jane-cara», si sentì dal soggiorno e, girando l'angolo, ecco mia madre, seduta in poltrona.

«Ho pensato di venire per parlare un po'.»

«Mmm», mormorai, pensando che avrei preferito essere cosparsa di miele e legata sopra un formicaio. «Come hai fatto a entrare?»

«Ho ancora una chiave da quando abbiamo ristrutturato.»

Ah, ecco, no comment! Improvvisamente l'idea di un piccolo cocktail dopo-appuntamento (ed era stato un appuntamento: proprio così) mi parve eccellente. Mi diressi al mobile dove tenevo la mia scorta di liquori, inade-guata in modo imbarazzante.

«Posso offrirti qualcosa, mamma?» Vivienne fremette a quel nome, ma a me piaceva chiamarla così. Amavo avere una vera mamma. Inoltre aveva fatto irruzione nel mio appartamento quindi era certamente «mamma».

«Sherry. Sai cosa mi piace, Jane-cara.»

Così andai a prendere il suo sherry... e una bella dose di whisky per la sua figliola bistrattata.

Mi sedetti sulla poltrona di fronte a lei. «Cin cin.»

«Jane-cara», cominciò, «non so cosa stia succedendo con Hugh o con l'altro o con chiunque ci sia nella tua vita impegnata.» Il tono della sua vo-ce lasciava adito a qualche dubbio sul fatto che la mia fosse una vita impegnata, o addirittura che potesse definirsi una vita.

Non potei fare a meno di interromperla. «Wow, non ho parole! La mia vita impegnata!»

«Ti prego.» Vivienne tese una mano, il palmo in fuori. «Lasciami parlare.»

Annuii e bevvi un sorso del mio drink, facendo una smorfia mentre il li-quido infuocato scendeva in gola. Michael mi mancava molto. Già.

«Jane-cara, sono venuta qui per dirti che...» Mia madre si interruppe e sembrò stranamente a corto di parole. Mi accigliai e mi raddrizzai. Era già fidanzata con Karl Friedkin?

«Sì?» la sollecitai incoraggiante, lasciando perdere l'aggressività.

«Bene, io non ci sarò per sempre e quando me ne sarò andata la società sarà tua e potrai prendere qualsiasi decisione vorrai.» Si interruppe e bevve un sorso del suo sherry.

Era una tattica inedita per lei. Cominciavo a preoccuparmi. «Cosa intendi?»

«Non interrompere. C'è un'altra cosa. Non te l'ho mai detto, ma mia madre è morta di infarto a trentasette anni. Tu ne hai trentadue. Pensaci.»

Dopo queste parole, mia madre si alzò in piedi, mi si avvicinò e mi diede un bacio sulla guancia, poi se ne andò come era arrivata.

Cosa diavolo aveva voluto dire? Pensava che sarei morta di infarto? Era strana e diversa dal solito. Voleva dirmi che soffriva di cuore? No, sarebbe stata molto più melodrammatica, avrebbe pianto, sarebbe svenuta, avrebbe recitato una scena degna di Bette Davis.

Come al solito, Vivienne aveva avuto l'ultima parola.

50

Certo, certo, certo. So benissimo che pigiare con insistenza il pulsante dell'ascensore non lo fa arrivare più velocemente. Ma non potevo farne a meno.

Dopo il mio appuntamento al cardiopalmo con Michael (era stato proprio un appuntamento) e la mia strana conversazione con la misteriosa Vivienne, avevo dormito sì e no per una ventina di minuti. Ora era mattino e pregavo perché Michael mi stesse aspettando all'ingresso per accompa-gnarmi al lavoro. Dio, volevo rivederlo, almeno ancora una volta. Ti prego. Ti prego. Ti prego. Fa' che sia giù. Non permettere che sia scomparso di nuovo dalla mia vita.

Considerai l'idea di scendere di corsa i dieci piani sino all'ingresso.

Il mio personal shopper di Saks, sulla Quinta Strada - il regalo di Vivienne per il mio compleanno (e quale genere di regalo dice «tu mi metti in imbarazzo» meglio di uno shopper che ti aiuta a scegliere i vestiti più adatti?) - mi aveva mandato un elegante completo Lagerfeld, giacca e pantaloni di seta di un pallido verde-azzurro. Pensavo mi stesse bene, forse anche qualcosa di più.

Dannazione, avevo un bell'aspetto! Avevo persino perso un chilo e mezzo!

Un chilo e mezzo. Non mi era mai successo.

Infine arrivò l'ascensore e avrei voluto saltare su e giù sul pavimento per farlo andare più veloce. Jane. Per favore! Rilassati, dissi a me stessa e cercai di ascoltare il mio consiglio.

Quando l'ascensore arrivò all'ingresso, mi stampai in viso un sorriso, ma il cuore batteva all'impazzata. Le porte si aprirono. E poi...

C'era solo il portiere diurno, Hector.

«Buon giorno, signorina Jane», disse.

«Buon giorno Hector. Come va?» Io sono distrutta.

Michael non era nell'atrio!

Michael non mi aspettava fuori.

Michael non si vedeva.

«Posso chiamarle un taxi?» chiese Hector.

Esitai per guadagnare tempo.

«Non so. Magari faccio una passeggiata.»

«Certamente, è una bella giornata.»

«Sì, perfetta.»

Forse Michael era in ritardo. Poco probabile. Michael non era mai in ritardo. Mai una volta quando ero bambina.

«Prenderò un taxi», dissi alla fine. Mentre aspettavo sotto la pensilina del palazzo, perlustrai la strada nella speranza che il viso di Michael com-parisse improvvisamente nella marea di uomini d'affari e turisti e scolari che marciavano lungo Park Avenue.

Michael non era nella folla.

Era di nuovo uscito dalla mia vita? Se così fosse stato, lo avrei ucciso, a costo di impiegarci una vita intera. O, quanto meno, gli avrei messo un collare con un campanellino.

Ma, prima di tutto, perché si era preso la briga di ritornare?

51

Mentre entravo alla ViMar Productions, ero leggermente scossa, ma stranamente serena, su me stessa, su chi fossi e su cosa avrei fatto della mia vita. Forse Michael era tornato perché la mia autostima aveva bisogno di un piccolo ritocco o, per essere sinceri, di una revisione? Era quello che Vivienne cercava di dirmi ieri sera?

Vidi Elsie farmi un cenno da dietro il banco della reception.

«Nel tuo ufficio. È una sorpresa.»

Oh, bene, ero proprio dell'umore giusto per qualcosa di inatteso. Neanche nei giorni buoni amo le sorprese, ma oggi avrei potuto mettermi a urlare nella hall. Quando aprii la porta rimasi indubbiamente sorpresa, ma non in senso positivo. C'era Hugh. Ed era seduto alla mia scrivania e guardava la mia posta.

«Ora che hai frugato fra le mie lettere, perché non controlli il mio Bla-ckberry?» e lo gettai sulla scrivania.

Balzò in piedi. «Jane.» E venne verso di me con le braccia spalancate.

Indossava dei jeans sbiaditi, stivali neri di Prada, l'orologio che gli avevo regalato lo scorso Natale e una costosa camicia di jeans, stazzonata per sembrare da dieci dollari o anche meno, anche se probabilmente ne costava almeno duecento.

Ignorando il mio sguardo sgomento e impettito al tempo stesso, mi abbracciò e si avvicinò per baciarmi. Con una smorfia girai la testa in modo che le sue labbra sfiorassero la guancia.

«Non sono più arrabbiato con te», disse.

«Wow. Vorrei poter dire lo stesso. Adesso perché non te ne vai?»

«Vedo che sei ritornata sana e salva da Brooklyn.»

Aspettò una mia reazione alla sua battuta, ma, purtroppo per lui, mi limi-tai a lanciargli un'occhiataccia. Scollai la sua mano dal mio fondoschiena, andai alla scrivania e mi sedetti. «Hugh, perché sei venuto?»

«Perché tu sei la mia preferita. Dai, Jane. Concedimi una tregua.»

Improbabile. Non che il mio cuore fosse freddo: proprio non registrava la presenza di Hugh.

«Hugh, ho una montagna di lavoro.»

Improvvisamente sul viso gli comparve un'espressione infantile, del tipo abbi pietà di me. «Jane, ho bisogno di te. Non chiedo molto.»

Inarcai le sopracciglia, ma lui continuò comunque.

«Ascolta, siamo onesti. Io ho bisogno di questa parte nel film. Ho bisogno di Thank Heaven. Okay, adesso sei contenta? Mi sono umiliato e mi sono mortificato.»

Non parlai, anche se capivo cosa mi stava dicendo e provavo perfino una briciola di pietà per lui. Tuttavia, quello era lo stesso Hugh che voleva scambiare un anello di fidanzamento per una parte in un film e che mi aveva mollato nei guai a Brooklyn.

«Non succederà, Hugh. Mi spiace, sinceramente mi spiace. Mi spiace.

Ma non avrai la parte. Tu non sei Michael.»

«Sì! Per Dio, Jane. Ho creato io quel personaggio.»

«No, non è vero. Tu non c'entri niente con la creazione di Michael. Fidati.»

Spalancò gli occhi e apparve quel suo viscido tono di scherno. «Piccola stronza disgustosa!» sputò. «La figlia-di-mamma-che-finge-di-essere-la-mamma. Ancora nel mondo delle fiabe da quando avevi otto anni.»

Mi alzai dalla scrivania convinta che le mani cominciassero a tremare, ma non successe. «È una carognata, Hugh, perfino da parte tua.»

«Sai dove puoi ficcarti quel tuo filmetto? Guarda che ti facevo un favore offrendomi per quella cazzata sentimentale. Quel film non uscirebbe mai se tu non fossi la figlia squattrinata di Vivienne Margaux.»

Gli occhi mi si stavano riempiendo di lacrime, ma Hugh non sembrava notarlo ed era l'unico aspetto positivo di tutta la faccenda. Si avvicinò alla scrivania, agitando il dito contro di me. «Tu hai bisogno di me, Jane. Io non ho bisogno di te. A te serve il mio talento, perché tu non hai alcun talento.»

Improvvisamente vidi tutto rosso, proprio come nei libri, e il petto mi si riempì di una rabbia bruciante. «Non sarei così sicuro. Guarda questo,

Hugh.»

Ritrassi il braccio e lo colpii in faccia, il più forte possibile.

Silenzio.

Eravamo entrambi sorpresi. Hugh si teneva le mani sull'occhio sinistro, ma quello destro era spalancato e vigile.

Un istante dopo avvertii un dolore intenso alla mano e abbassai lo sguardo per vedere se mi fossi rotta qualche nocca.

«Mio Dio, Jane, sei impazzita?»

Con la mia solita fortuna, mia madre era arrivata giusto in tempo per vedere che prendevo a pugni Hugh. Ottimo. Ero certa che col tempo mi sarei ripresa. Magari quando Vivienne si sarebbe ripresa dal vestito che avevo scelto di indossare per la laurea e che ancora mi mettevo ogni tanto.

«Lei mi ha...!» farfugliò Hugh. «È completamente fuori di testa!»

Sapete, ero un po' a corto di argomentazioni. Voglio dire, cosa avrei potuto dire? Non ti avrei colpito se il mio amico immaginario, forse fidanzato, fosse stato qui?

Credo di no.

52

Mia madre e quei suoi dannati tacchi a spillo erano arrivati ticchettando nel mio ufficio non per vedermi, ma per accertarsi che avessi accettato le patetiche scuse di Hugh.

«Jane, cosa sta succedendo?» chiese Vivienne.

«È pazza, ecco cosa succede!» gridò Hugh.

«Niente, mamma», risposi calma. «Hugh e io abbiamo formalmente rotto.»

«Rotto?» chiese Vivienne. «Come? Perché? Cosa mi sono persa? Mi sento confusa e io non mi sento mai confusa.»

«Capisco il tuo stato d'animo, ma, dopo tutto, in realtà non siamo mai stati una coppia. Più che altro eravamo un solista con una spalla.»

Mia madre mi guardava con gli occhi sbarrati, poi si affacciò dalla porta del mio ufficio. «MaryLouise!»

MaryLouise doveva essere appostata fuori dalla porta ad ascoltare i fuochi d'artificio, perché rispose a tempo di record.

«Portami del ghiaccio avvolto in un asciugamano di lino», ordinò Vivienne.

Tipico di Vivienne specificare il materiale dell'asciugamano.

Hugh la ringraziò per la sollecitudine e lei lo guidò al divano a tre posti appoggiato al muro. «Sto bene», disse Hugh. «Resto solo un minuto. Vivienne, non so cosa ho sbagliato.»

Come ho già detto, è un attore.

Mia madre rivolse a me la sua attenzione.

«Vedi, Jane? Cosa ti ha preso? Non puoi andartene in giro a prendere a pugni le persone come Hugh. Avresti potuto fargli male.»

«Mi ha fatto male.» La voce di Hugh era soffocata.

«Non più di quanto lui abbia fatto male a me. Immagino tu non sia a conoscenza della sua disastrosa proposta di matrimonio... vero?»

«Jane, non essere insolente. Io sono serissima.»

«Anch'io. Oppure i miei sentimenti non contano perché si tratta soltanto di me?»

«Ascolta, Jane, questo non è il tuo mondo fantastico dove puoi fare tutto quello che vuoi», ribatté Vivienne.

«Ti ringrazio per avermelo ricordato», risposi seccamente, incrociando le braccia sul petto.

«Non riesco a immaginare cosa Hugh abbia potuto fare per provocare una reazione simile da parte tua.»

«Davvero? Quando hai qualche ora di tempo, ti faccio l'elenco. Adesso, voglio che voi due usciate dal mio ufficio.»

Vivienne avanzò verso di me, il viso in fiamme, e si fermò a pochi centimetri dalla scrivania.

«Questo non è il tuo ufficio. Questo è il mio ufficio. Ogni posacenere, ogni scrivania, ogni computer, ogni bagno, ogni pezzo di carta, ogni foto-copiatrice...»

Spalancai la bocca.

«Se non fosse per me tu non lavoreresti qui. E certamente non ci lavoreresti se io avessi immaginato che avresti preso a pugni un talento come Hugh McGrath. Che non debba mai più sopportare un simile comportamento da parte tua.»

«Hai ragione, non succederà più.»

Ribollivo di rabbia. Mi chinai, presi la mia cartella di pelle nera e ci fic-cai il maggior numero possibile di oggetti sulla scrivania: documenti, lettere, penne e fotografie, senza dimenticare il mio preziosissimo indirizzario Rolodex.

«Non essere ridicola, Jane.»

«Non lo sono. Sono più lucida di quanto non lo sia da anni.» Poi aggiunsi - perché sono fatta così - «Mi spiace».

Le passai accanto e superai anche Hugh. E improvvisamente un folle pensiero mi folgorò: niente bacio oggi?




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