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Candles in the Wind
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Forse era un messaggio. O un avvertimento. Un istinto?
Sentii il bisogno di andare in uno dei nostri «posti»: la scalinata del Met, il mio panorama preferito di New York da quando ero una bimbetta e ci venivo con Michael.
Ero seduta sui gradini da qualche minuto. Quando ero uscita furibonda dall'ufficio di mia madre, automaticamente avevo chiesto al tassista di portarmi lì. Ora la rabbia era svanita e si era trasformata in qualcosa che ricordava vagamente una sensazione di forza. Almeno era quello che mi ripete-vo. Quel che non ti uccide ti rende più forte, giusto? Questo luogo comune non mi era mai particolarmente piaciuto, ma non mi facevo scrupoli a usar-lo ora.
E ogni bocciolo primaverile sembrava in fiore. Da dove ero seduta, vedevo i fiori rosa del melo e l'esplosione rosso vivace delle azalee. Una scacchiera oro e arancio di margherite appena piantate riempiva un giardi-no prossimo alla Quinta Avenue.
È meglio, molto meglio.
Gli scolari scendevano alla spicciolata dagli scuolabus davanti al museo.
Vecchie signore con il bastone salivano con attenzione i gradini, probabilmente per vedere la mostra di abiti di Jackie Kennedy. C'ero stata, fatto.
Una coppia di adolescenti si sedette a pochi passi da me. Si baciarono con desiderio e mi divertii a guardarli perché in quel momento, almeno, erano inguaribilmente innamorati. Ero anch'io innamorata ma senza speranza?
La buona notizia era che avevo la sensazione di essermi tolta un enorme peso dalle spalle. Mi ero liberata di Vivienne, di Hugh, ero libera dalle pressioni del lavoro, libera dall'orario fisso nove-cinque (o meglio nove-nove), libera di non preoccuparmi dell'aspetto. Almeno per la prossima o-ra, pressappoco.
Dalla mia vita volevo una cosa: Michael. Sapevo che non potevo contare sulla sua presenza e che questo non dipendeva da lui. Sapevo che un giorno sarebbe potuto sparire e probabilmente lo avrebbe fatto. Ma l'amore fa correre dei rischi e, proprio in quel momento, io volevo rischiare. Per una volta nella mia vita, sapevo cosa volevo.
Era un inizio, o no?
Sentii una voce e alzai lo sguardo. Dovetti schermarmi gli occhi dalla luce del sole.
«Mi scusi, signorina, questo gradino è occupato?»
Era Michael.
«Come fa a sapere che sono una signorina?» chiesi.
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Era veramente Michael. Mi aveva trovato. Ma, Signore, sembrava distrutto!
«Cosa ti è successo?» gli chiesi dopo avergli dato un'occhiata veloce.
«Cosa intendi? Cos'ho che non va?»
«Hai l'aria di chi non dorme da giorni. Gli occhi sono iniettati di sangue.
Hai i vestiti madidi di sudore. Sei...»
Si sedette accanto a me e mi tenne la mano. «Sto bene, Jane. Veramente bene.» Si chinò e mi baciò sul collo. Dolce. Forte. Non saprei come e non mi interessava. Poi mi baciò sulle labbra, risvegliando il desiderio in ogni fibra del mio corpo. Mi baciò una seconda volta. E una terza. Lo guardai negli occhi e cominciai a fremere.
«Perché non sei al lavoro?» mi chiese.
Con grande sforzo mi concentrai sulla sua domanda.
Ero certa che sapesse cosa era successo.
«Jane?»
«Perché non sono al lavoro? Perché ho preso a pugni Hugh McGrath. Mi sono anche fatta male alle nocche.» Michael mi baciò le mani.
«Perché, per una volta, ho detto a mia madre dove poteva andare, e mi sono sentita proprio bene, Michael. Perché ho lasciato il mio lavoro diurno, che la maggior parte delle volte diventava anche notturno.»
Michael mi sorrise con affetto. «Urrà per Jane! Buon per te!»
Risi. «Urrà per Jane? Buon per me? Spero che questo non ti porti a pensare che il tuo lavoro sia finito qui. Perché non lo è, neanche lontanamente.»
«Tu sei un progetto infinito», disse con un altro sorriso. «Cambi, ti evol-vi, stupisci.»
«Ottima frase. Si vede che hai fatto pratica.»
Poi mi avvicinai e lo baciai ancora. «Ho deciso di smettere di essere infelice e oppressa. Voglio godermi davvero la vita. Voglio divertirmi. Non lo meritiamo tutti?» chiesi.
«Assolutamente sì, e tu più di tutti.»
Improvvisamente si fece serio e i suoi occhi evitarono i miei.
Oh, oh. «Cosa?» chiesi.
«Jane, ti ricordi quando eri piccola e tuo padre ti portò a Nantucket per quel lungo fine settimana? Ricordi?»
«Era stato organizzato per compensare il fatto di non avermi portato da nessuna parte per il mio quinto compleanno. O per il quarto. Probabilmente per il terzo.»
«Sì, è così.»
«Ricordo che per la prima volta sono stata veramente felice», dissi sorridendo al ricordo lontano. «Noi due abbiamo costruito i castelli di sabbia con quello stupido secchiello della Barbie e con la paletta coordinata. Siamo andati in una gelateria in città dove mettevano i pezzetti di cioccolato e le nocciole nel gelato al caffè. Ogni giorno andavamo a nuotare anche se l'acqua era gelida, un Brrr con la maiuscola.»
«Bei tempi, vero?» disse Michael.
«I migliori. Ricordi il Cliffsde Beach Club? E Jetties Beach?»
«Torniamoci, Jane.»
Sorrisi. «Mi piacerebbe. Quando?»
«Adesso. Oggi. Andiamo. Cosa ne pensi?»
Guardai negli occhi azzurri di Michael e mi resi conto che stava succedendo qualcosa, ma non volevo chiedergli cosa fosse. Immaginai che me l'avrebbe detto presto. Inoltre c'era di nuovo la piccola Jane. La fantasia è molto meglio della realtà.
«Mi piacerebbe andare a Nantucket. Ma mentre siamo là tu devi promettermi che risponderai a qualche domanda.»
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«Prima domanda», disse Jane durante la corsa verso l'aeroporto. «Non hai voluto dirmi se sei mai uscito con qualcuna. Ma ti sei mai innamorato?»
Michael fece una smorfia, sospirò e poi disse: «Per quel che capisco, Ja-ne, dopo poco tempo sembra che io dimentichi cosa è successo nel passato.
In ogni caso, non è una mia scelta. Per rispondere alla tua domanda, penso di no».
«Quindi questa sarebbe la prima volta?» chiese Jane e Michael sorrise al'idea che lei desse per scontato che lui si fosse innamorato di lei. Michael non lo aveva detto, ma lei sì. E non si era sbagliata.
«E il sesso?» chiese di nuovo Jane.
Michael cominciò a ridere. «Su questo andiamoci piano. Una domanda alla volta, d'accordo? Adesso parliamo d'altro, Jane-cara.»
«Quando ero piccola ricordo che per andare a Cape Cod prendevamo le Eastern Airlines. Ogni estate ci andavamo un paio di volte», disse Jane mentre il taxi arrivava al Marine Air Terminal dell'aeroporto LaGuardia.
Michael le diede un bacio, indugiando sulla morbidezza delle labbra e notando il luccichio degli occhi. Era una donna adulta, ma lui amava l'innocenza infantile che conservava ancora.
«Stai cercando di zittirmi?» chiese Jane. «Baciandomi?»
«Niente affatto. Semplicemente... mi piace.» E la baciò di nuovo.
Alla fine il tassista abbaiò: «Voi due scendete dal taxi o avete intenzione di stare qui a fare i piccioncini per tutto il giorno?»
«Fare i piccioncini», rispose ridendo Jane all'uomo, che quasi sorrise a sua volta.
Michael pagò l'autista e afferrò le due piccole valigie. Una volta all'interno del terminal, si fermò e si guardò intorno.
«Adesso cosa cerchi?»
«Lui.»
Michael indicò un vecchio con una giacca a vento marrone che sul ta-schino aveva stampate le lettere CCPA. Il viso era cotto dal sole e pieno di rughe.
«Cape Cod Private Airlines?» chiese Michael avvicinandosi all'uomo.
«Le uniche», rispose con voce roca. «Seguitemi, gente. Siete Jane e Michael, giusto?»
«Così pare», disse Jane.
Seguirono il vecchio e in pochi minuti erano a bordo di un piccolo aereo che aveva un aspetto inquietantemente simile a quello che Michael aveva visto nelle immagini del volo transatlantico di Lindbergh.
«Pensi che questo aereo ce la farà a raggiungere Nantucket?» chiese Ja-ne, scherzando solo a metà. Michael sperava che non stesse pensando ai recenti incidenti capitati ai piccoli aerei da turismo.
«Abbia fiducia, signora», disse il pilota.
«Ne abbiamo molta, lei non immagina quanta», rispose Michael.
Dopo qualche minuto le eliche giravano e l'aereo correva lungo la pista come un ubriaco incespica sulla Bowery.
«Quando ho immaginato la mia morte, in realtà non ho proprio pensato a un incidente aereo.» Jane cercò di scherzare, ma la sua mano stringeva sal-damente quella di Michael.
Michael sentì la gola serrarsi e il petto cominciò a dolergli di nuovo. Ja-ne stava scherzando, ma lui aveva una brutta sensazione a proposito di quello che aveva appena detto. Era previsto che si schiantassero e che anche lui sarebbe morto? Dopo tutto, ultimamente, aveva sperimentato tante prime volte. La morte sarebbe stata la sua ultima «prima volta» come per tutti?
«Non ci schianteremo, Jane», disse e le strinse ancor di più la mano.
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L'aereo decollò, e ci mise un po' a trovare la quota di crociera. Secondo Michael stavano indugiando troppo ad ammirare i tetti del Queens. Anche quando furono in mezzo alle nuvole l'aereo fece un rumore, putt-putt-putt,
non proprio rassicurante.
Comunque, in circa cinquanta minuti arrivarono a Nantucket. Vedevano sotto di loro miglia e miglia di spiagge sabbiose e qualche isolotto. Poi at-terrarono, senza una scossa. Alla fine Jane lasciò la mano di Michael.
Anche se era solo primavera, il posto era affollato di gente vestita con l'abbigliamento colorato dell'estate. Una marea di rosa e giallo e verde aci-do. Jeans sdruciti ad hoc e pantaloni da surf. I gabbiani stridevano sopra di loro come se non avessero mai visto prima dei turisti o forse come se ne avessero visti fin troppi.
Michael e Jane raggiunsero la coda per i taxi. Il sole era a picco e l'aria era frizzante e pulita.
Mentre aspettavano, Jane prese il viso di Michael tra le mani. «Michael, dove sei?» chiese.
«Come? Sono proprio qui.»
Michael non sapeva cosa dire, ma certamente avrebbe fatto meglio a ri-prendersi. Aveva pensato alla morte di Jane, ma lei era lì, o no? C'erano entrambi. Allora perché perdeva del tempo prezioso? Perché tutti lo facevano? Perché sprecare anche un solo secondo del tempo che si ha? Ora gli era così chiaro.
«Siamo insieme», disse Jane, guardandolo negli occhi. «Divertiamoci e basta. Dimentica tutto quello che hai in mente e sta' con me. Affrontiamo momento per momento. Un'ora alla volta. Minuto per minuto. D'accordo?»
Michael le coprì una mano con la sua e chinò la testa per baciarle dolcemente il palmo. Sorrise e annuì.
«Sì», disse. «Minuto per minuto. Un'ora alla volta. Un giorno alla volta.» All'aeroporto arrivavano alla spicciolata taxi e piccoli autobus. La gente li caricava di sacche sportive di L.L. Bean e borse della spesa di Dean e Deluca. Michael e Jane attesero con impazienza crescente. Infine arrivarono in testa alla fila.
«Buttate le valigette nel bagagliaio», disse il tassista.
Valigette. Che magnifica parola vecchio stile. Al sentirla Michael sorrise e, vedendolo, Jane rise. «Bene, sei tornato.»
«Ci sono, Jane. La mia mano tiene la tua. Quello che senti è il mio cuore che batte.»
Jane sorrise, poi si guardò attorno per un'ultima volta. Sta ricordando, pensò Michael. L'erba alta piegata dal vento. I gabbiani sopra la testa. Vicino alla coda per i taxi un'adolescente bionda aveva allestito un banchetto per vendere marmellate fatte in casa.
Il tassista avrebbe potuto essere il fratello del pilota che li aveva appena accompagnati. Un abitante del New England autentico, privo di fronzoli, con un'età imprecisata tra i sessanta e gli ottantacinque anni.
«Dove vi porto, bella gente?» chiese.
«All'India Street Inn», disse Michael.
«Ottima scelta», rispose il tassista. «La casa di un vecchio capitano di baleniera, sapete.»
Jane sorrise e strinse più forte la mano di Michael.
«Ottima scelta», ripeté Jane. «Mi piacciono i capitani di baleniera.»
«Sì», le disse improvvisamente all'orecchio Michael. «In risposta alla tua domanda di prima. Sì, ho già fatto sesso.»
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Ecco cosa Jane e Michael non videro mentre andavano in auto in città: i fast food, i negozi di souvenir, persino i cartelli stradali. Questo era veramente il paradiso. Misero a fuoco un paio di indicazioni scritte a mano che segnalavano la decima fiera del vino di Nantucket e la trentacinquesima regata a Figawi. Un inizio perfetto per la loro vacanza.
Poi il taxi si fermò davanti all'India Street Inn.
«Un bed and breakfast di Nantucket dovrebbe essere proprio così», considerò Jane mentre entravano. Quello era il piano di Michael: qualcosa di semplice e bello, niente di ostentato, soltanto grazioso e fresco, adatto al loro viaggio.
Quel posto era perfetto, pensò Michael: gerani rossi nelle fioriere blu marine alle finestre, quilt colorati a disegni geometrici alle pareti e, ovviamente, la scontrosa anziana signora del New England che gestiva l'albergo.
«Avete prenotato? Altrimenti non c'è posto.»
Michael le diede il nome - «Michaels» - e qualche istante dopo furono indirizzati alla suite 21 al secondo piano. C'era un'ampia stanza con un grande letto matrimoniale e molti mobili antichi di pino, un murale dipinto a mano su una parete e ovunque morbidi asciugamani. Dal bagno una porta dava accesso a una stanza da letto più piccola. Camere comunicanti.
Quello che aveva chiesto Michael quando aveva telefonato.
«Perfetto», disse Jane guardandosi intorno.
Andò alla finestra della camera più grande e la spalancò. Una brezza fresca le mosse i capelli e Michael pensò che non era mai stata così bella. Poteva esserci qualcosa di più speciale di essere lì con Jane? Nessuno gli aveva mai fatto battere il cuore così forte. Si sarebbe ricordato se gli fosse già successo, o no?
Jane prese un pieghevole dalla scrivania e cominciò a leggere: «'Caffè nella saletta sul davanti a partire dalle sei del mattino. Lezioni di windsurf nella baia al lunedì e al giovedì. Si noleggiano biciclette. Gli ospiti possono salire alla torre della Old North Church'. Possiamo? Voglio fare tutto, ti prego, ti prego!»
Michael quasi sentiva la felicità di Jane trasudare dalle sue parole. Non si comportava come una bambina, ma ne aveva le stesse magnifiche qualità: entusiasmo, curiosità, innocenza.
La amo, pensò, e disse: «D'accordo, quello che vuoi».
E decise di lasciare tutto così, per il momento.
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L'albergatrice diede loro due vecchie biciclette Schwinn: niente alla mo-da, gomme spesse, vernice arrugginita, freni a pedale, cigolii vari. E indicò vagamente in direzione di Siasconset, dicendo: «Molti turisti pensano che
'sconset sia veramente bella e speciale. Perché è veramente bella e speciale».
Jane partì per prima e Michael la seguì lungo la Milestone Road. Non c'era molto traffico, una jeep ogni tanto, una moto, un furgone per la con-segna del pesce, un grosso e volgare taxi giallo Hummer, poi un gruppetto di ragazzini sulle bici da corsa, più veloci di alcune auto.
«Buona luna di miele!» gridò uno dei ragazzi. Michael e Jane si guardarono e sorrisero. Dopo sei o sette chilometri, arrivarono a una staccionata malconcia e a un panorama che sembrava sorprendentemente simile a quello del Serengeti in Africa. Poi superarono la Tom Nevers Road e magnifiche distese di mirtilli. Arrivarono al Nantucket Golf Club, ettari di fairway e green che facevano quasi sembrare divertente il golf.
Arrivò un'altra collina, più alta delle altre. Un segnale in legno a forma di freccia diceva: SIASCONSET. Seguirono la cresta ed ecco: una spiaggia bianca che si allungava fino all'oceano. Michael si chiese se Jane si fosse resa conto che il sole rosso intenso del pomeriggio stava per tramon-tare, pronto a inondarli con la sua splendida luce.
«Dimmi che non hai mai visto qualcosa di così dolce», disse Jane mentre si sedevano sulla sabbia.
«In realtà, sì.» La guardava negli occhi.
«Fermati!» disse lei, ridendo e arrossendo. «Stai perdendo ogni credibi-lità in questo nostro primo giorno qui.»
«D'accordo.»
«No, non fermarti.»
Così Michael l'abbracciò, la osservò con la coda dell'occhio e si godette quel momento.
Amo Jane. Per ora è tutto.
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Quanto al sesso... la nostra prima notte a Nantucket non successe niente e io cercai di non pensarci troppo, senza riuscirci. Cercai anche di non ri-manerci male e fallii una seconda volta, abbastanza miseramente.
Il mattino dopo, di buon'ora, facemmo una gita nel posto più alto dell'isola, chiamato Folger Hill. Prudentemente ci spalmammo una gran quantità di crema solare e indossammo camicie con le maniche lunghe. Mi piaceva tutto, ogni minuto, ogni secondo.
La passeggiata lungo Polpis Road sembrò lunga. Forse ero soltanto stanca. Inoltre si era rannuvolato, e la nebbia sul mare ritardava i traghetti e le barche con i rifornimenti.
Ci fermammo nel porticciolo di Madaket. C'erano un negozio di esche, una ferramenta e un locale detto Smith's Point. Intorno alle undici e mezzo mangiammo pesce e patatine in una baracca che in un primo momento avevamo pensato fosse abbandonata.
«Come fai a conoscere questo posto?» chiesi.
«Non te lo so dire. Lo conoscevo e basta.»
Forse per zittirmi, Michael mi baciò, e la cosa non sembrava stancarmi mai, e poi mangiammo il fritto di pesce più croccante e delizioso che avessi mai assaggiato. Il cuoco aveva avvolto i pesci nelle pagine di un quoti-diano, l' Inquirer and Mirror. Inzuppammo il merluzzo nell'aceto di malto.
E poiché Michael era convinto che una porzione di fritto non è mai abbastanza ordinammo anche un cartoccio di patatine fritte, anche quelle con l'aceto. Nel frattempo, dalla cucina all'aperto, arrivavano le vecchie canzo-ni di Bob Dylan e ogni cosa sembrava così perfetta e magica che quasi mi venne voglia di piangere.
A volte coglievo lo sguardo di Michael rivolto verso il mare arrabbiato.
E in quei momenti sembrava scivolare ancora lontano. Volevo sapere dove andava, cosa pensava. Sapeva già quando mi avrebbe lasciata? Chiusi gli occhi, non volevo pensarci. Non ci avrei pensato fino a quando fosse accaduto.
E doveva succedere, vero? Era così che doveva finire. Michael mi avrebbe lasciata per prendersi cura di un bambino in un altro posto, forse neppure a New York.
Era inevitabile, così accantonai i pensieri tristi e rimasi in vacanza, innamorata di lui.
«Cosa ricordi di me bambina?» chiesi e mi misi comoda per ascoltare i ricordi di Michael per circa un'ora. Era interessante perché ora sembrava ricordare tutto, perfino il gelato al caffè con fiumi di caramello caldo.
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«Non avrei mai pensato di dire queste parole.»
«E quali parole sono?»
«Sono troppo sazia per cenare.»
«Jane, non hai mangiato niente dal pranzo.»
«Tu mangi e io ti guardo», dissi e Michael mi fissò preoccupato.
Di ritorno all'India Street Inn, facemmo la doccia e mettemmo i jeans, le magliette e le giacche a vento. Poi camminammo. Eravamo così: passeggiavamo e chiacchieravamo. Ci allontanammo dal centro del paese, lontano dai negozi, dalle preoccupazioni, dalle responsabilità, da tutto quello che aveva a che fare con il cosiddetto mondo reale, col mio lavoro, con Vivienne.
Passammo accanto a case vecchie di trecento anni, dove un tempo vive-vano marinai e balenieri, dove mogli pazienti e fedeli avevano atteso che i mariti tornassero dal mare; case che erano già lì ben prima che le celebrità televisive, i cantanti pop, gli attori e gli scrittori arrivassero sull'isola.
Superammo un mulino, numerosi piccoli stagni, sentieri pedonali e una quantità impressionante di edifici storici.
«Sicura di non avere fame?» mi chiese Michael mentre tornavamo all'albergo.
«Ci sono soltanto due cose di cui sono sicura: uno che non ho fame e due...» Feci una pausa, non a effetto, ma perché volevo essere certa di quello che stavo per dire.
«Continua. Qual è la seconda?»
«Due, ti amo, Michael. Penso di averti amato per tutta la vita. Avevo bisogno di dirlo ad alta voce, non solo nella mia testa.»
Ci fermammo e Michael mi prese i fianchi e poi mi carezzò la schiena, eccitandomi in un modo che mi rendeva pronta, be', praticamente a tutto.
Ci baciammo ancora e lui mi sollevò in un abbraccio, come mi piaceva tanto, e poi coprimmo la breve distanza fino all'albergo. Mi sembrava che all'ingresso brillasse un'insegna al neon: E ORA?
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«Quasi non vi riconoscevo senza una canna di bicicletta tra le gambe», esclamò la proprietaria quando entrammo. La guardai sorpresa. Non credo che intendesse niente di più di quello che aveva detto, perché si zittì subito.
Michael e io scoppiammo a ridere, poi salimmo in camera, tenendoci per mano, ma questa volta, stranamente, senza parlare. In quel momento non avevo neppure una domanda da fargli.
In camera ricominciammo a baciarci. I baci erano profondi, poi lievi, lievi e di nuovo profondi, le nostre labbra incollate, ascoltavamo i nostri respiri. Mi chiedevo dove saremmo arrivati. Dove potevamo arrivare?
«Da te o da me?» riuscii finalmente ad articolare qualche parola.
«Si potrebbe... si potrebbe...» mormorò Michael e il suo viso era preoccupato.
«Nessun potrebbe... Solo... sì», dissi con un sorriso. Mi guardò solen-nemente negli occhi.
«Dai, Michael», lo sollecitai mentre gli accarezzavo dolcemente il collo e mi stringevo a lui. «È una cosa bella. Sarà bella. Te lo prometto. Te lo giuro... Lo spero...»
Allora sorrise e mi prese la mano, conducendomi nella stanza più piccola. «Qui andrà bene», mormorò. «Deve andare bene. Tutto ci ha condotto qui, a questo momento. Ed eccoci. Tutto bene?»
Sorrisi di nuovo.
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Ero fremente di desiderio e nervosa. Soprattutto fremente, ma... «Questa è sempre la parte peggiore», dissi sedendomi sul bordo del letto.
«Cosa?»
«Togliermi i vestiti.»
«Forse per te», disse Michael scherzosamente. «Per me vedere che ti spogli è decisamente la cosa migliore degli ultimi numerosi anni.»
Cominciai ad armeggiare con i bottoni della camicia e improvvisamente ebbi una di quelle strane preoccupazioni illogiche che sembravano assa-lirmi regolarmente quando avevo disperatamente bisogno di concentrarmi su qualcos'altro. Ma questa era una domanda a cui nessun ministro, prete o rabbino avrebbe potuto rispondere: è giusto fare l'amore con il tuo amico immaginario? Certamente un gesto così pieno d'amore non poteva essere un peccato. Ma se inspiegabilmente lo fosse stato era un peccato mortale o veniale? Maggiore o minore? E se il tuo amico fosse un angelo, o potesse esserlo, ma non ne fosse sicuro neppure lui?
Michael si accorse della mia esitazione e prese la situazione (e la mia camicia) nelle sue mani. Si dimostrò discretamente abile a sganciare il reggiseno... con una sola mano e in meno di cinque secondi.
«Sei bravo», dissi, pervasa da brividi di piacere. Mi sentii avvampare il collo e il viso.
«Non hai ancora visto niente», e mi lanciò uno sguardo ammiccante.
«Oh, lo spero.»
«Anch'io.»
Ci baciammo e poi Michael mi prese i seni tra le mani, facendomi gemere senza ritegno. Mi tenne con dolcezza, come se temesse di farmi male, e con delicatezza mi accarezzò i capezzoli, facendomi rabbrividire. Gentile, dolce, bello come doveva essere. Poi, con la punta delle dita, mi sfiorò il ventre. Mi sentivo sciogliere al suo tocco.
Era un tocco splendido. Sublime. Era forse un angelo? A quel punto non me ne fregava più nulla. Il mio corpo e i miei sensi erano tesi e vigili, per godere ogni istante. Non mi ero mai sentita così bene.
«Mi piace come mi tocchi», gli sussurrai contro la guancia. «Nessuno mi ha mai toccato così.»
Il suo respiro si stava facendo ansimante e smise di baciarmi per dirmi:
«E io non avevo mai toccato nessuna così».
Mi fece salire su di lui leccandomi lievemente i capezzoli, facendomi mancare il respiro. Smisi di farmi domande sulla sua esperienza. Eravamo insieme e adoravo essere con lui. Forse perché potevo dire che lui era felice di stare con me. Lo sentivo dal suo tocco e lo vedevo nei suoi occhi azzurri. Gli piaceva quanto a me quello che stava facendo.
Lo baciai ancora, assaporando la dolcezza della sua bocca, poi, pervasa da un senso di urgenza, lo guardai negli occhi e sussurrai: «Ora, sì, ti prego».
«Okay, Jane, sì, grazie.» E sorrise come il sole che sorge. Mi fece sdra-iare e io mi aprii per lui e sentii il suo peso delizioso su di me, il calore della sua pelle. Finalmente, fu dentro di me, e doveva essere la cosa giusta da fare perché disse: «Ti amo così tanto, Jane. Ti ho sempre amato e ti amerò sempre».
E quello era esattamente anche il mio pensiero in quel momento.
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Quella notte restarono insieme a lungo e Jane poi dormì come un bambino, ma Michael non ci riuscì. Rimase sdraiato sul letto con il viso a pochi centimetri da quello di lei e le accarezzò i capelli per un'ora o forse più.
Guardarla sdraiata così tranquilla gli fece desiderare di... rompere tutte le finestre della stanza. La vita era ingiusta e, per la prima volta, lo capiva veramente. Era lì per quello? Per imparare a essere più compassionevole?
Se così era, ci voleva veramente tanto tanto tempo perché lui era già dan-natamente compassionevole. L'amico immaginario di un bambino doveva esserlo. Quindi, che ruolo ci si aspettava che avesse in questo dramma?
Quello di un angelo? Di una persona normale? Di un amico immaginario?
Aveva tante domande quante Jane e nessuno gli dava una risposta.
Si mosse piano, sedendosi sul bordo del letto. Andò in bagno e si guardò nello specchio.
Devi dire a Jane cosa sta succedendo, cosa le sta per succedere.
Ma non era certo fosse la cosa giusta da fare. Aprì l'acqua della doccia, calda il più possibile. La cabina era piena di cose di Jane: sapone alla mandorla, balsamo Kiehl, shampoo.
Quanto era malata? Era un cancro? Qualcosa che aveva a che fare col cuore? Ieri dopo il pesce con le patatine Jane aveva detto di sentirsi così sazia da voler prendere un taxi per non pedalare fino all'albergo. Poi era stanca durante la passeggiata al villaggio. E il giorno precedente aveva mangiato pochissimo, solo il pesce con le patatine...
«Ehi, c'è così tanto vapore qui dentro che pensavo il bagno avesse preso fuoco.»
La sentì e cominciò a sorridere.
«Michael, sei lì dentro?» gridò Jane.
«No, non c'è. Sono un tizio con la sua voce.»
Jane rise e scostò le tende della doccia. «Oh! E c'è qualcos'altro di Michael. Mio Dio, come è grosso. E sta crescendo. Mi sa che devo proprio fa-re qualcosa...»
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Ed ecco cosa accadde poi.
Fecero di nuovo l'amore, poi dormirono. La mattina si svegliarono col sorriso e una meravigliosa sensazione di stupore e appagamento. Dopo colazione andarono a fare un'escursione per vedere le balene. Michael trovò adorabili l'eccitazione e la sorpresa di Jane quando apparve il dorso di una balena incredibilmente vicino alla barca. Dopo pranzo andarono al faro di Brant Point e poi fecero una lunga passeggiata sulla spiaggia, mano nella mano, alternando le chiacchiere a lunghi, piacevoli momenti di silenzio.
Michael disse a Jane per quanto tempo era stato un «amico», e le raccontò tutto quello che ricordava, in realtà solo gli ultimi incarichi; aveva la sensazione che ce ne fossero stati altri, ma i ricordi erano svaniti, come sogni. Rivedendo ora Jane adulta, i ricordi degli anni lontani erano ritornati.
In tutta onestà ignorava se ogni bambino avesse un amico immaginario, ma lo sperava.
Quella sera Michael telefonò al Nantucket Lobster Trap e un taxi consegnò loro direttamente sulla spiaggia aragosta, molluschi e pannocchie arrostite di contorno. Tornarono all'albergo e fecero di nuovo l'amore, con una maggiore intimità. E fu ancora più eccezionale. Durante la notte Jane ebbe un po' di nausea, ma era certa fosse per qualcosa che aveva mangiato, probabilmente i molluschi.
Il mattino dopo noleggiarono un Sailfish. Jane pescò una dozzina di pesci serra e Michael nessuno. Cercò di imprimersi nella memoria l'aspetto di Jane, allegro e trionfante, mentre sollevava l'ennesimo lucido e sgusciante pesce serra. I suoi capelli brillavano al sole e il suo sorriso illuminava il cielo. Non vedeva l'ora di tornare in albergo con lei.
Prima di cena fecero l'amore, con un'intensità che stupì entrambi. Poi salirono sulle vecchie bici e pedalarono sino alla pittoresca Siasconset. Sulla via del ritorno si fermarono a raccogliere le rose selvatiche dal profumo speziato e le misero nei cestini delle biciclette. Cenarono in città al ristorante di Ozzi e Ed, dove erano stati praticamente adottati dai proprietari che li chiamavano «adorabili».
Tornando dalla cena, Michael disse: «Ti ho mai raccontato di Kevin Uxbridge?»
«No. Era uno dei tuoi bambini? Un tuo amico?»
«No. Kevin Uxbridge apparteneva alla razza Douwd in Star Trek.»
«La prima serie o Next Generation?»
«Next Generation. Incontra una donna che si chiama Rishon e si innamora a tal punto di lei da decidere di rinunciare ai suoi straordinari poteri per sposarla e vivere una 'vita mortale'.»
«Spero abbia funzionato», disse Jane. «Vedo un'analogia.»
«Be', in realtà non funziona così bene», ammise Michael. «Arrivano gli Husnocks e attaccano la loro colonia. Rishon viene uccisa. Kevin è così fu-ribondo e disperato da distruggere completamente la razza Husnocks. Tutti e cinquanta miliardi.»
«Accidenti», commentò Jane, «sembra un po' eccessivo. Ma, aspetta, Kevin sei tu o sono io?»
«Nessuno di noi due è Kevin», rispose Michael e sembrava quasi secca-to.
«O-kaay», disse Jane, prendendogli di nuovo la mano. «Personalmente in Star Trek ho sempre preferito gli animali.»
Michael decise di lasciar perdere.
Ora, ogni volta che Jane tossiva o sembrava affaticata, Michael ripiom-bava nella realtà. Ogni volta che lei parlava di un crampo alla gamba o della perdita di appetito, lui sentiva un brivido. Ma non poteva dirle... perché... cosa avrebbe ottenuto se non trasformare quei momenti speciali in qualcosa di orribile?
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Quando su Nantucket cala la notte, il cielo può essere nero più della pe-ce, molto più che a New York, soprattutto se è nuvoloso. Niente luna, nessuna luce stradale, nessun turista chiassoso che passeggia sulle strade in ammattonato. Jane dormiva e Michael guardava dalla finestra della loro camera. Nell'oscurità riusciva a malapena a scorgere gli edifici di fronte.
Come era stato sorprendente ritrovare Jane, conoscerla come donna. E
poi il sentimento cresciuto tra loro, le cene e le chiacchiere, le risate a volte irrefrenabili. I baci urgenti e rapidi, prima solo stuzzicanti, poi quelli ap-passionati, dove si univano cuore e anima. E infine fare l'amore, abbracciarla per ore cercando di immaginare un futuro per loro due che andasse oltre Nantucket.
Intorno alle quattro del mattino, Michael si sedette sul bordo del letto a guardare Jane che dormiva e a cercare di trovare una soluzione. Jane si accorse che era sveglio.
«Cosa succede, Michael?» chiese lei con voce dolce e assonnata. «Cosa c'è? Stai male?»
«Niente, Jane. Io non mi ammalo mai, ricordi? Sono le quattro.»
«Vieni a sdraiarti qui vicino. Sono le quattro.»
Così si sdraiò accanto a lei, tenendola stretta fino a quando Jane si riad-dormentò. La guardò fino a farsi dolere gli occhi. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per salvarla. Anche se avesse significato... l'impensabile.
Forse era quello. Ebbe un'idea, o almeno un embrione di idea. Trovò che la logica di quel pensiero gli dava speranza. Era lì per guidare Jane fuori da questo mondo, esatto? Quella era la sua missione. Ma cosa sarebbe successo se lui se ne fosse andato?
Il dolore gli pugnalò il cuore mentre immaginava la sua esistenza senza Jane, mesta e in bianco e nero. Se però questo significava la sua sopravvi-venza, allora ne sarebbe valsa la pena. Se lui se ne fosse andato e non l'avesse aiutata a lasciare questo mondo, allora lei avrebbe dovuto restarci per forza. Possibile?
Non sapeva. Ma, in quel momento, non aveva altro.
Mentre cercava ancora di mettere a fuoco la questione, aggrappandosi a tutto, cominciò a gettare le sue cose nella sacca di tela e poi chiuse la finestra perché Jane non prendesse freddo. La guardò ancora. Faccio bene a lasciarla adesso? Funzionerà? Dovrebbe. Deve. Jane non può morire.
Avrebbe voluto darle un bacio d'addio, abbracciarla ancora una volta, parlarle, sentire la sua voce. Ma non osava svegliarla. Come avrebbe potuto lasciarla un'altra volta? Ma non aveva altra scelta. «Ti amo, Jane», sussurrò, «e ti amerò sempre.»
Con cautela si chiuse la porta alle spalle, corse lungo il corridoio e scese le scale. C'era un traghetto per Boston alle cinque e mezzo. Si fermò al banco all'ingresso e parlò col portiere di notte. «La mia amica è nella suite 21. Qualcuno può controllare domani mattina? Per favore le faccia dire che sono partito improvvisamente. Un... amico è malato. Si assicuri che le di-cano un amico. Un bambino.»
Michael camminò lungo le strade buie e deserte di Nantucket. Si sentì solo, isolato, alla deriva. Faceva fatica anche soltanto a respirare, il che era insolito. Aveva le gambe incredibilmente pesanti. Infine le lacrime cominciarono a scendergli sulle guance. Vere lacrime. Un'altra prima volta.
Si strinse nella giacca a vento e aspettò al porto. Il traghetto sarebbe arrivato dopo mezz'ora. C'era già un cenno di alba all'orizzonte. Significava che c'era una speranza?
Doveva esserci, perché Jane non poteva morire. Spezzava il cuore anche il solo pensiero.
Jane non può morire adesso.
70
La mattina dopo mi svegliai già sorridente e mi stiracchiai voluttuosa-mente, con quell'aria felice, sicura, e vagamente scarmigliata che deriva dal fare molto spesso l'amore, vero amore, non solo sesso.
Mi sentivo in splendida forma. La luce inondava la stanza, come se il so-le cercasse di splendere ancor di più, solo per noi. Girandomi, rimasi delu-sa non vedendo Michael lì accanto a me. Quella stupida sveglia da viaggio sul comodino traballante segnava le nove meno cinque. Non era comunque troppo tardi.
Ma cosa avevamo progettato di fare questa mattina Michael e io? Vediamo, avevamo parlato di tornare in un negozio di antiquariato che aveva un dente di balena intagliato che a Michael piaceva. Prima di tutto la colazione nel bar in città specializzato in frittelle ai mirtilli, anche se non avevo fame. Forse perché stavo perdendo peso e mi piaceva la sensazione che mi dava il mio corpo. O forse, più verosimilmente, perché ero innamorata.
Be', comunque, eravamo in ritardo, giusto? I giorni insieme non erano mai abbastanza lunghi. Dovevamo cogliere ogni istante, inoltre Michael adorava mangiare, forse perché non aumentava neanche di un etto. Il verme.
Stavo per balzare fuori dal letto quando ebbi un ricordo improvviso della notte precedente. La mente si soffermò su qualcosa che Michael avrebbe voluto dirmi, qualcosa che doveva dirmi. Ricordai di essermi svegliata di notte e Michael era sdraiato accanto a me.
Dov'era?
«Michael?» chiamai e non ebbi risposta. «Michael, sei lì? Michael? Mikey? Mike? Ehi, tu!»
Mi alzai, allontanai i capelli dagli occhi e mi guardai attorno. Niente.
Michael non era da nessuna parte.
Ero esterrefatta. Non potevo crederci. Cercai con gli occhi un biglietto, ma non ne vidi.
Sbalordita, mi portai una mano alla bocca. Non era possibile che lo avesse fatto.
Con passo incerto tornai nella mia camera dove le lenzuola aggrovigliate sembravano farsi beffe di me. Non mi aveva mai sfiorato l'idea che Michael potesse amarmi, nel senso letterale del termine, e poi lasciarmi. Non sapevo se essere preoccupata o infuriata o solo dolorosamente straziata.
«Michael», sussurrai nella stanza vuota. «Michael, come hai potuto?
Non mi amavi? Sei stato tu che hai...» O mio Dio, era così, vero? Ecco quello che avrebbe voluto dirmi, ecco perché non era riuscito a dormire.
Mi aveva lasciato di nuovo per un altro bambino, vero? Era ritornato a essere l'amico immaginario di qualcun altro.
Corsi come una pazza tra le due stanze in cerca di un brandello perduto di lucidità. Aveva portato via tutto. La sua borsa da viaggio... andata. Aprii la cassettiera, spalancai l'armadio. Non c'era niente di suo. Nessun segno che fosse stato lì.
Dalla finestra guardai la giornata luminosa e splendida come non ne avevamo ancora avute a Nantucket. Un giorno perfetto per andare in bicicletta e per visitare negozi di antiquariato, per pranzare da Ozzie e da Ed e per stare con qualcuno che ami più della vita stessa.
«Oh, Michael. Come hai potuto lasciarmi sola? Di nuovo.»
Questa volta non lo avrei perdonato, non avrei mai potuto perdonarlo per avermi ancora spezzato il cuore.
71
Gli uomini fanno schifo. Anche quelli immaginari.
Tornai a New York quel giorno stesso e mi sentii un'estranea perfino a casa mia; sembrava che tutto in quelle stanze appartenesse a qualcun altro.
Qualcuno che non ero io. Erano i miei mobili? Avevo scelto io i quadri al-le pareti? Chi aveva preso le tende? Oh, aspetta. C'era un motivo per cui sembrava l'appartamento di un altro. Per esempio, quello di Vivienne.
E chi era la persona riflessa nello specchio? Non mi colpirono soltanto le occhiaie scure. Ero così magra!
Appoggiai la mia valigetta in camera e mi sedetti sul letto. I miei occhi velati misero a fuoco il comodino. Le gardenie che mi aveva dato Michael non c'erano più. La domestica probabilmente aveva buttato i fiori appassiti.
Nuove lacrime mi riempirono gli occhi... e avevo pensato di averle già piante tutte.
Neanche per sogno, Jane-cara!
Improvvisamente fui sopraffatta da un'ondata di nausea. Mi invase lo stomaco e il petto, una sensazione bruciante, terribile. A stento raggiunsi il bagno, mi chinai sulla tazza e vomitai i migliori crostacei di Nantucket. Infine l'ondata si ritirò e mi lavai la faccia al lavabo. Le mani mi tremavano ancora e, allo specchio, ero pallida e verdognola. Avvelenamento da cibo.
Proprio quello che ci voleva.
Quando mi sentii meglio, controllai i messaggi, sperando contro ogni logica che Michael avesse lasciato una parola, una sorta di spiegazione. Ma, prima di tutto, c'era mia madre: «Jane-cara, sono preoccupata per te. Seriamente preoccupata. Per favore, richiamami. Tua madre».
Di colpo sentii l'impellente bisogno di telefonare a Vivienne. Anche se era furibonda per la mia assenza. Infatti - e dico sul serio - ero sorpresa che non avesse sguinzagliato un investigatore sulle mie tracce.
Digitai il numero di Vivienne. Non risposero né la cameriera né il mag-giordomo, invece partì il messaggio della segreteria.
«Avete chiamato Vivienne Margaux...»
Mentre mia madre parlava, ripassai il messaggio che le avrei lasciato dopo il segnale.
E, in quel momento, crollai e il mio discorso preparato svanì.
«Mamma, sono io, Jane. Ascolta. Michael mi ha lasciato. Per favore chiamami. Ti voglio bene.»
Avevo veramente bisogno di uno dei baci di mia madre, esattamente in quel momento. Più di quanto non mi fosse mai capitato in tutta la vita.
Dopo di che non riuscii più a parlare, riappesi e mi buttai a faccia in giù sul letto. Piangevo di nuovo, tossivo e la gola mi bruciava.
Non riuscii a fermare la successiva ondata di nausea. Incespicai fino al bagno e vomitai. Poi la nausea finì, ma non si fermò la tosse. Cercai di de-glutire, ma peggiorò le cose.
Tornò la nausea e questa volta mi spaventai. Era bruciante e violenta.
Non era rimasto niente da vomitare. Solo conati. E sudore freddo. Crollai sul pavimento del bagno e appoggiai la testa sul tappetino. Bruciavo e contemporaneamente tremavo per i brividi. Mi sentivo morire. Riuscivo solo a sbattere le palpebre.
Sentivo il telefono suonare in camera da letto, ma non avevo abbastanza forze per alzarmi e neanche strisciare per andare a rispondere. Ma doveva essere Vivienne e io volevo parlarle.
O forse era Michael?
Riuscii a mettermi in piedi e mi trascinai verso l'apparecchio.
72
La preoccupazione, l'ansia, il senso di colpa, la mancanza di sonno lo colsero infine sul traghetto delle cinque e mezzo da Nantucket alla terra-ferma. Gli occhi avevano ripreso a bruciargli e il suo maglione a trecce non bastava a proteggerlo dal vento freddo e umido del mattino che spaz-zava l'Atlantico.
L'angoscia continuò a tormentarlo sull'autobus per l'aeroporto di Breton e poi sulla navetta da Logan a LaGuardia, con strane conseguenze sulla sua vista. Tutto intorno a lui gli sembrava privo di colore, con una vomitevole sfumatura grigia. Sole poche ore prima era a Nantucket dove era stato incredibilmente felice con Jane. I momenti più belli di tutta la sua vita. Ora era tutto finito.
Arrivò al suo palazzo e salì le scale. Sentì delle risate provenire dall'appartamento di Owen. Una voce di donna. Un'altra conquista? Oddio, forse era quello che Jane avrebbe pensato di essere stata per lui? Le sarebbe sembrato così? Certo.
Buttò la borsa in casa, ma non ci rimase. Non adesso, non in quello stato.
Qualche minuto dopo camminava velocemente lungo Broadway, da so-lo, guardando le persone grigie, i taxi grigi e gli edifici di New York, più grigi del grigio. Gli mancava Jane e avvertiva un dolore che quasi gli to-glieva il fiato, una terribile fitta al petto. Si domandò cosa stesse facendo, se stesse bene. Il suo piano aveva funzionato?
Poi non riuscì più a trattenersi e la chiamò a casa. Dopo molti squilli, sentì la sua voce. «Sono Jane. Per cortesia lasciate un messaggio. Per me è importante. Grazie.»
Dio, come amava quella voce.
Nei pressi di Lincoln Center per poco evitò una collisione con una moto che svoltava a destra con diritto di precedenza. «Svegliati, testa di cazzo, coglione!» gridò il guidatore. Buon consiglio. Avrebbe voluto svegliarsi da quell'orribile incubo.
Proseguì per un altro isolato, senza avere idea di dove stesse andando, ma improvvisamente lo colpì un pensiero: sto andando in un posto, sono diretto in un posto preciso!
Ma dove?
Nordest, gli sembrava.
Infine si rese conto che una forza esterna lo faceva muovere. E poi capì,
o almeno pensò di capire.
Ora correva.
Gli occhi gli si riempirono di lacrime che non riuscì a trattenere. La gente lo guardava, qualcuno gli offrì aiuto. Michael continuò a correre. Ora sapeva con certezza dove stava andando.
Il New York Hospital.
E sapeva cosa avrebbe trovato.
«Oddio, Jane! Fa' che non succeda!»
Vorrei averla baciata e abbracciata di più, pensò.
Vorrei essere rimasto a Nantucket.
Vorrei...
73
First Avenue e Sessantottesima. Era quasi arrivato.
Irruppe nel New York Hospital. Per ironia, era già stato in quel triste posto quando avevano tolto le tonsille a Jane da piccola. Superò velocemente il bancone all'ingresso, ricordandosi dove erano gli ascensori.
In fondo a un lungo corridoio, a destra.
Doveva andare al settimo piano.
Stanza 703.
Davanti a lui la gente entrava nell'ascensore. Due infermiere, un medico, alcuni visitatori, una bambina che piangeva per il nonno. Perché doveva esserci tutta questa sofferenza? Improvvisamente si fece molte domande.
«Non c'entra più nessuno», gli disse il medico.
«Mi spiace», rispose Michael. «Se ci stringiamo, ci stiamo. Si sorpren-derebbe di quello che noi sappiamo fare.»
Noi, aveva pensato, e aveva detto noi.
Le persone sull'ascensore si scambiarono delle occhiate, quegli sguardi nervosi che sembravano dire: questo è matto.
Infine le porte si chiusero e l'ascensore cominciò a salire.
«Non avrei dovuto lasciarla», mormorò Michael a se stesso. Avrei dovuto stare con lei comunque. E guarda adesso cosa è successo. Il suo folle piano non aveva funzionato. Le aveva provocato inutilmente del dolore.
Era stato così stupido!
L'ascensore arrivò al settimo piano. Michael uscì per primo e superò di corsa il banco delle infermiere. Rallentò quando si avvicinò alla camera 703.
La porta era accostata. Si ravviò i capelli sudati e si asciugò la faccia con la manica. Doveva sembrare calmo e controllato. Ma non lo era. Si sentiva esplodere il cuore. Non aveva mai avvertito una sensazione simile.
Aprì la porta e guardò nella stanza. Un'infermiera era seduta accanto al letto e controllava un monitor cardiaco.
Quel che vide gli tolse il fiato. Portò la mano alla bocca, ma gli sfuggì comunque un gemito.
Non si aspettava quello, per niente. Ma aveva senso, dava un senso a tutto quello che era successo. Dopo tutto, c'era un piano.
74
Nel letto d'ospedale c'era qualcun altro.
Non Jane. Non chi si aspettava e temeva.
C'era Vivienne.
In un primo momento Michael non comprese, ma poi intuì e alcune tes-sere del puzzle sembrarono andare a posto. Era Vivienne che stava morendo. Lui avrebbe dovuto aiutare Vivienne.
La donna era immobile. Non l'aveva mai vista in quel modo. Il viso era pallido in modo innaturale sotto l'abbronzatura e non aveva trucco. I capelli erano sciolti e si vedeva la ricrescita bianca. Eppure sembrava serena e bella. Assomigliava molto a Jane e provò affetto per lei. Se fosse stato possibile, avrebbe voluto essere utile. Avrebbe voluto aiutare entrambe.
«Vivienne», disse. Poi all'infermiera: «Sono un parente, può concedermi un minuto?» La donna gli sorrise e si alzò.
«Sono qui fuori. Ha avuto un infarto. La situazione è critica.»
«Sì, lo vedo.»
Vivienne aprì gli occhi e lo guardò. Poi li richiuse per un paio di secondi, come se stesse riflettendo. Michael parlò con dolcezza. «Vivienne, sono qui per aiutarla, sono Michael.»
Aprì gli occhi e l'azzurro era sempre intenso. «Michael?» chiese con il tono di voce più basso che le avesse mai sentito. «Michael di Jane?»
«Sì, Michael di Jane.» Le prese la mano. «Vorrei che potesse vedere come è bella», le disse. «È come ha sempre voluto. Splendida.»
«C'è uno specchio nella borsa.»
Michael andò a prenderlo e mostrò a Vivienne il suo aspetto. Non l'aveva mai vista in quel modo, così vulnerabile e così simile alla bambina che era ancora in lei.
«Ho avuto momenti migliori. E peggiori, immagino. Ora non importa molto, vero?»
«Invece sì. Un bell'aspetto è la miglior rivincita.»
Vivienne sorrise e mise una mano su quella di Michael. «Dov'è mia figlia? Jane è qui?» chiese. «Non posso andarmene fino a quando non avrò visto la mia Jane-cara.»
73
Cosa sarebbe successo se non fossi riuscita a rispondere al telefono e se non avessi sentito una MaryLouise in lacrime, praticamente fuori di sé, dirmi di andare il più in fretta possibile al New York Hospital? Dopo avere riappeso, mi sentii estranea a me stessa, quasi avessi abbandonato il mio corpo. Mi sentivo ancora male, ma avevo meno nausea. Ero solo ancora scossa e debole. Indossai degli abiti puliti e poi fu come osservare una persona che mi assomigliava correre all'ingresso e dire a Martin il portiere di
«chiamare un taxi per cortesia».
Ma fui io a balzare giù dal taxi davanti all'ospedale e a correre al banco informazioni e a sentirmi dire che Vivienne Margaux era nella camera 703.
MaryLouise stava aspettando accanto alla porta chiusa. Mi baciò una guancia e scosse la testa. Karl Friedkin era in fondo al corridoio. Aveva la testa china, ma vidi che gli occhi erano addolorati. «C'era Karl con lei quando è successo», disse MaryLouise.
La porta della camera di mia madre si aprì proprio in quell'istante e una donna in camice bianco mi chiese se fossi Jane. Si presentò come la neuro-loga. «Sua madre ha avuto un infarto», mi spiegò gentilmente. «È successo ieri sera a teatro. Chiede di lei.»
Annuii e cercai di non piangere, mi sforzai di essere coraggiosa come Vivienne avrebbe voluto. Ma mentre entravo nella camera iniziai a tremare.
Mia madre era pallida e indifesa e molto, molto diversa dal solito.
E accanto a lei, a tenerle la mano, c'era Michael.
76
Michael mi guardò e fece un lievissimo cenno con la testa e poi abbozzò un sorriso comprensivo. «Ciao», sussurrò. «Vieni al posto mio.» Si alzò e mi sedetti sulla sedia accanto a Vivienne.
«Ciao, mamma. Sono Jane. Sono qui.»
Mia madre girò la testa e i suoi occhi incontrarono i miei. Respirava af-fannosamente. Pensai che stesse cercando di parlare, ma che non ci riuscisse, e non le era mai successo prima. Non aveva trucco, e i capelli erano spettinati e in disordine. Indossava il camice dell'ospedale e allora compre-si la gravità della situazione. Se fosse stata anche solo l'ombra di se stessa, avrebbe fatto fuoco e fiamme per non mettere quel camice.
Inoltre, sembrava contenta di vedermi.
Mi avvicinai. «Cosa c'è, mamma? Cosa c'è?»
Parlò e la sua voce era dolce e gentile. «Sono stata dura con te, Jane-cara. Lo so», disse. Poi cominciò a piangere. «Mi spiace, mi spiace tanto.»
«Va bene, va tutto bene», le ripetei.
«Ma l'ho fatto per renderti forte. L'ho fatto per non farti diventare come me. Così fredda, dura e intrigante. Così Vivienne Margaux. Sarebbe stato veramente terribile.»
«Per favore, non parlare. Tienimi soltanto la mano, mammina.»
Vivienne sorrise. «Mi piace quando mi chiami mammina.»
Mi aveva sempre detto che lo odiava.
Mi strinse la mano. «Grazie al cielo, Jane-cara, non assomigli minima-mente a me. Sei solo altrettanto intelligente. Quindi avrai ancora più successo, ma continua a essere gentile. A essere Jane. Fai sempre le cose a modo tuo.»
E questa confessione mi fece salire le lacrime agli occhi, quelle che trat-tenevo da anni. «Pensavo di essere una delusione perché non ero come te.»
«Oh, Jane-cara, no, no, no. Mai. Vuoi sapere una cosa?»
«Cosa?»
«Sei la sola persona che abbia mai amato, l'unica. Sei l'amore della mia vita.»
L'amore della sua vita.
Gli occhi mi bruciavano per le lacrime, la gola e il petto mi facevano male, ma mia madre era il ritratto della pace. E pensai: allora è così? Dopo tanti anni di urli ai macchinisti, strilli alle segretarie, liti con gli investitori.
Dopo decenni a dare continuamente ordini alle cameriere e agli autisti e agli addetti al catering e ai decoratori. Dopo le distese di abiti firmati e le scarpe da migliaia di dollari. Dopo tutti i viaggi a Parigi e a Londra e a Bangkok e al Cairo. Finisce così, una donna fragile in un letto di ospedale.
Mia madre e io. Finalmente insieme.
«Avvicinati, Jane-cara», disse. «Non mordo. Forse», aggiunse con un ri-solino.
Mi avvicinai talmente che le nostre facce quasi si toccavano.
«Devo chiederti un favore.»
«Certo, mamma. Cosa vuoi?»
«Mi raccomando, controlla che mi seppelliscano... con quel nuovo abito di broccato di Galliano. Niente nero. Sto malissimo in nero.»
Non potei fare a meno di sorridere. Era Vivienne sino alla fine, così fedele a se stessa. «Galliano. D'accordo.»
«E ancora una cosa, Jane.»
«Sì?»
«Non vestirti in nero neanche tu per il funerale. Il nero smagrisce, ma non so per quale motivo non dalla vita in su.»
Il mio sorriso si allargò. «Okay, mamma. Mi vestirò in rosa. Ho proprio l'abito adatto.»
«Sei simpatica, lo sei sempre stata. Rosa a un funerale. Sì, ti prego.»
Guardai Michael. Adesso anche lui sorrideva.
Mia madre chiuse gli occhi e fu scossa da un tremito. Non sopportavo l'idea di perderla. Mia mamma. Alla fine era mia mamma.
Michael si alzò e andò dall'altra parte del letto. Le prese una mano e io l'altra. Funziona così, vero? Stava succedendo tutto troppo in fretta e all'improvviso.
Mi chinai e baciai Vivienne sulla guancia morbida e levigata. Sorrise e aprì gli occhi. Un lieve cenno della testa mi disse che voleva che mi avvi-cinassi ancora.
«Jane, la sola cosa che odio nel morire è dover dire addio a te. Ti voglio tanto bene. Addio, Jane-cara.»
«Addio, mamma. Ti voglio tanto bene anch'io.»
E poi mia madre mi diede il suo ultimo bacio per ricordarla per sempre.
77
Come aveva richiesto, Vivienne fu sepolta con l'abito di Galliano. Era splendida. In realtà l'intero funerale fu incredibile e commovente. Perché no? Vivienne l'aveva pianificato nei minimi particolari.
Io ero in rosa. Rosa Yves Saint-Laurent.
La funzione fu celebrata a St. Bart's, in Park Avenue, in un giorno molto caldo di primavera.
Due pianisti suonarono Brahms in modo impeccabile, come se Vivienne li controllasse. Poi un solista cantò alcune melodie tratte da alcuni musical prodotti da mia madre. Un paio di volte i partecipanti si unirono al canto.
Quando la funzione finì, ci alzammo tutti e cantammo la canzone preferita da mia madre «Jingle Bells». Che era così incredibilmente diversa da Vivienne da risultare perfetta. Come lei sapeva che sarebbe stata. E io fui felice per lei. Mia madre aveva prodotto il suo ultimo successo.
Mentre uscivamo da St. Bart's diretti alle limousine in attesa, Michael mi disse: «Mancavano solo i cocktail e poi sarebbe stata una delle feste di Vivienne Margaux. Come doveva essere».
«Mi è piaciuto», dissi abbracciandolo. «Perché anche a lei sarebbe piaciuto.»
C'erano tutti quelli che contavano o fingevano di contare. Non solo Elsie e MaryLouise e le persone dell'ufficio, ma attori molto famosi, registi, macchinisti e coreografi, trovarobe e truccatori. Tutti lì in onore di mia madre e dei suoi successi, che erano molti, compreso avermi cresciuta com'ero.
C'era mio padre con sua moglie, Ellie, che a quarantotto anni ne dimostrava finalmente più di trenta. O forse si era solo vestita sobriamente in onore di Vivienne.
C'era Howard, il mio patrigno. Era persino sobrio e mi disse che non aveva mai smesso di amare Vivienne. «Anch'io, Howard, anch'io», gli risposi e lo abbracciai.
C'era il vecchio parrucchiere di mia madre, Jason e basta, senza cognome. Come Vivienne, era un perfetto testimonial della chirurgia plastica e aveva fatto a mia madre un ultimo favore. Era arrivato in aereo da Palm Springs solo per sistemarle i capelli.
Mi si parò davanti perfino Hugh McGrath. Mi strinse la mano, mi abbracciò come se fossi un'ex moglie e mi fece le condoglianze. Quasi gli credetti, poi ricordai: Hugh è un attore e un gran figlio di puttana.
Il servizio al cimitero della Contea di Westchester fu breve e toccante, anche quello secondo un'esplicita indicazione di Vivienne. Il ministro ci ricordò che la vita era troppo breve, che eravamo destinati a un altro mondo e che senza dubbio Vivienne avrebbe prodotto spettacoli in paradiso.
Posai una rosa sulla bara di mia madre. Nel mio stile. Pregai che lei fosse in pace e che, se stava guardando in quel momento, tutto fosse andato come aveva desiderato. Sono in rosa, mamma!
Poi Michael mi prese la mano e ci allontanammo.
«Dobbiamo parlare», disse e sentii un brivido.
78
Il sole era caldo e illuminava il cimitero come un palcoscenico. Le foglie verdi degli alberi, i colori vivaci dei fiori, tutto sembrava così frizzante e leggero e perfetto. Allora perché tremavo?
«Giornata stupenda», dissi.
«Neppure Dio si sarebbe messo contro Vivienne.» Michael sorrise. Si era allentato la cravatta e aveva tolto la giacca che teneva appesa sulla spalla. Tipico di Michael, sempre fedele a se stesso.
«Così ora sappiamo perché sono stato mandato a New York. E perché avevo quelle sensazioni a proposito del New York Hospital e tutto il resto.»
Annuii ma non parlai. «Ero qui per aiutare tua madre. Ne sono quasi certo, Jane.»
Mi fermai e lo guardai.
«Ma tu sei ancora qui.»
Sorrise. «Sì, sembra di sì. A meno che non sia veramente il tuo amico immaginario. È possibile.»
Gli diedi un colpetto nello stomaco. «Ti senti tale?»
«Uff, sì, e adesso quando mi rado mi taglio regolarmente.»
Ci fu una pausa. Michael socchiuse gli occhi azzurri per schermarsi dal sole.
«Credo di essere qui perché voglio esserci. E anche perché tu sei l'unica persona che abbia mai amato. Sono qui perché non sopporto l'idea di lasciarti, Jane.»
Mi girai di nuovo verso di lui, con il cuore gonfio, e ci avvicinammo per baciarci con dolcezza. Era perfetto.
«Ci sono delle domande», dissi quando ci separammo, «che devono avere delle risposte.»
«Non so se le avrò. Ma ci proverò, Jane.»
«Allora, d'accordo. Fammi cominciare con una domanda difficile. Hai mai... parlato con Dio?»
Michael annuì. «Certo che sì, molte, molte volte. Purtroppo non mi ha mai risposto. Lui... Lei... Quello che è. Un'altra domanda?»
«Quindi tu credi in...?»
Michael si guardò attorno. «Be', altrimenti come giustificheresti... tutto questo? Oppure me, ovviamente? O noi? O le granite, i Pokemon, i Sim-pson, l'iPod?»
«Capisco. Quindi tu sei un angelo?»
«A volte. Ma a volte sono diabolicamente... spericolato.» Ridacchiò ammiccando. «Sto solo cercando di essere onesto.»
Battei il piede per terra. Dovevo saperlo. «Michael, tu sei un angelo?»
Mi fissò intensamente. «In tutta onestà, Jane, non lo so. Credo di essere come gli altri. Non ho indizi.» Mi strinse di nuovo tra le braccia. «Guardami, sentimi», sussurrò. «Siamo arrivati fin qui.»
Continuammo a camminare.
«Michael, devo chiederti un'altra cosa. Questo mi preoccupa veramente.
Avrai sempre questo aspetto?»
«Eccezionalmente bello, molto affabile e scarmigliato?»
«Proprio.»
«Vuoi sapere se invecchierò, Jane?»
«Sì.»
«Onestamente non lo so.»
«Bene, devi promettermi non soltanto che invecchieremo insieme. In realtà voglio che si veda che stiamo invecchiando insieme. È importante per me.»
«Farò del mio meglio per diventare rugoso e curvo e per guidare una grossa Buick nera.»
«Grazie. Io farò lo stesso. E per quanto riguarda i soldi?» chiesi. «Come fai ad avere i soldi?»
«È facile.» Schioccò le dita.
Non successe niente. Accigliato, le schioccò di nuovo.
«Strano», mormorò. Provò ancora e non successe niente. «Sono preoccupato. Era un ottimo sistema per avere denaro contante. E i taxi quando piove.»
Tentò ancora.
«Niente. Mmm, tagliarsi mentre ci si rade è un conto. Be', dovrò trovar-mi un lavoro. Forse potrei fare il pugile.»
Lo colpii di nuovo allo stomaco.
«Forse no.»
Infine feci la domanda più difficile, quella che mi spaventava di più.
«Starai con me, Michael? O mi lascerai? Dimmelo. Una volta per tutte.
Cosa accadrà?»
79
Michael alzò gli occhi al cielo, il che mi fece sentire leggermente - solo leggermente - meglio. Poi il suo viso si distorse in una smorfia e si portò una mano al petto. «Jane?» mormorò e sembrava confuso. «Jane?» E si accasciò sul sentiero dove stavamo camminando.
«Michael!» Caddi in ginocchio accanto a lui. «Michael, cosa sta succedendo? Cosa c'è, Michael?!»
«Dolore... al petto», riuscì a dire.
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